Il velo di Maia

Quando l’orrore si cela nell’innocenza è facile non scorgerlo ed esserne sopraffatti. Un racconto di Jacopo Berti.

 
Il corridoio terminò in una stanza bianca e spoglia, senza porte né finestre. Dall’alto si diffondeva un bagliore intenso, verso cui le pareti proseguivano indefinitamente, confondendosi poi nella luce.
Il chiarore cominciò ad attenuarsi. In un angolo, apparvero due paia d’occhi rossi e acquosi; poi due bocche, lividi violetti percorsi da un moto incessante. Si distinsero infine due volti, due bambini: un maschio e una femmina, albini, con tuniche bianche sugli esili corpi. Accovacciati di fronte alla parete bianca, scrivevano frenetici con un gessetto dello stesso colore.
Distolsero lo sguardo da quel che invano avevano vergato, si volsero, proruppero in grida mute: Maia! – Maia!
Disperati, scandivano a turno quel nome: Maia! – Maia…
«Maia? Tutto bene?»
La donna si svegliò di soprassalto, con un singulto. Si accorse di guardare il compagno attraverso un velo di lacrime. Si era addormentata accanto a lui, sul divano.
«Un altro… brutto sogno?» chiese Roberto, carezzandole i capelli castani. Nella sua voce, una malcelata esitazione, un imbarazzo condiscendente.
Lui li chiamava “brutti sogni”, un eufemismo che la faceva sentire trattata come una pazza. Maia annuì, addolcendo l’aria di rimprovero. Strinse Roberto in un abbraccio e si accorse di stare tremando solo quando smise di farlo.
Roberto rimase in ascolto.
«Niente. Neanche stavolta. C’è qualcosa che mi blocca» disse secca Maia, e si chiuse nel suo consueto silenzio, fissando un punto nel vuoto davanti al televisore acceso.
Andava avanti così da parecchi giorni: da quando aveva ricevuto quell’incarico, da quando aveva visto quelle foto.
 
Nemmeno il capitano Coslovich trascorreva notti tranquille, ma non raccontava a nessuno i suoi incubi, a occhi chiusi o aperti che fossero. Chino sul portatile, cercava di venire a capo di quella brutta storia. La psicologa infantile non gli era stata molto d’aiuto. Ma almeno lo è stata per i bambini, si ripeteva. Non potrei mai avere a che fare con una dozzina di piccoli traumatizzati, intendeva.
Annuiva con gravità, a ritmo di musica. Si tormentava il neo sul collo. Zittì Vivaldi – l’Inverno non è un granché – e tornò ai video. Tanto per scrupolo. Tra i vari testimoni, una soltanto aveva visto almeno qualcosa.
«Ciao, Giulia. Io sono Maia». Era una donna sui trentacinque anni, dall’aspetto abbastanza comune. E faceva di tutto per mantenerlo. Aveva un ottimo curriculum, ma era stata scelta soprattutto perché alcuni anni prima il suo aiuto era stato determinante in un’altra indagine che coinvolgeva dei minori.
«Ciao.» Giulia. Bambina precisina con treccine e dentino mancante.
«Ti va se parliamo mentre aspetti la mamma?»
Coslovich cliccò sulla traccia, trascinando il cursore fino al punto che ben conosceva. Minuto 4.12.
«Un uomo tutto nero. Ha preso Serena e Alberto per i capelli e li ha portati via.»
«Dove li ha portati?»
«Nel boschetto. Io ero nascosta nel castello.»
4.14. «[…]rto per i capelli e li ha portati via». Un altro clic, irritato. ‘sto cazzo di mouse!
5.23. «Ma com’era quest’uomo nero? Com’era vestito?»
«Non lo so, basta, ti prego, ho tanta paura.»
Poi un pianto a dirotto, abbracci, smancerie.
Fermò la registrazione e tornò all’abbozzo di rapporto, alla parte sugli abiti mancanti: una sciarpa di S. Zotti, un berretto di A. Magris. Secondo i genitori, sottratti dagli armadietti della scuola. Un maniaco, pensava Coslovich. «Un dannato maniaco» sussurrava, come a convincersene.
Sfogliò a schermo le foto della scena del crimine, senza indugiare sui dettagli cruenti, che conosceva già. Due corpicini scomposti, con graffi e contusioni. Con le gambe rotte, spezzate contro gli alberi al limitare dell’area giochi. Sbattute con una violenza inumana. A poca distanza, i loro scalpi, staccati forse con qualche rozzo strumento.
 
Distesa sul suo letto, Giulia faceva finta di dormire, ma in realtà ascoltava con attenzione fuori dalla porta, per capire se i genitori fossero ancora lì a vegliare.
Un tenue cigolio. L’anta dell’armadio si aprì a malapena e un’ombra ne suppurò lentamente, come da una piaga. Una sua estremità si protese fino a raggiungere i piedi di Giulia, divenne un naso di segugio, annusò le lenzuola. Poi assunse la foggia di una mano artigliata.
La bambina scalciò per scostare le coperte e si mise a sedere, tutta eccitata.
«Cinque in alto, pugno, cinque in basso» disse piano. La mano copiò a specchio i suoi movimenti e dall’armadio giunse un inquietante sussurro flautato.
Giulia ormai non si stupiva più di capire la lingua del suo strano amico. Gli rispose soddisfatta: «No, oggi nessuno mi ha tirato i capelli.» Esitò civettuola, ghignò scoprendo il buco tra i denti, poi aggiunse: «Qualcuno però mi ha chiesto di te». Dall’armadio, un altro fruscio.
«Sì, questo è suo.»
 
A notte fonda, Demetrio Coslovich è ancora chino sul video. Quando Giulia, abbracciata alla psicologa, sfrega due dita sul maglione della donna per prelevarne qualche fibra di lana, il capitano bofonchia e abbassa lo schermo del portatile. Bambini. Smancerie.