
Una storia che si dipana attraverso le sculture di un’artista mai esistita che prende vita grazie alla penna di Jacopo Berti.
È un piacere e un onore, per me che le sono stato amico, presentare questo tributo a Garatha Mushdi, nel decimo anniversario della morte. L’inferno e l’esilio, di Moses Efrani, è un volume esaustivo, frutto di anni di ricerche e viaggi, impreziosito da fotografie ad alta risoluzione. Da parte mia, posso aggiungere solo qualche ricordo di vita vissuta.
Conobbi Garatha nel marzo 1972: lei, trentenne, era in Italia per la sua prima personale; io, di qualche anno più giovane, scrivevo una tesi di laurea sulla scultura darimca e non potevo perdere l’occasione di conoscere un’artista annoverata tra i maestri della sua terra.
Le circostanze del nostro incontro si rivelarono tragicamente eccezionali: fu mentre discorrevamo davanti a una tazza di tè che la radio annunciò che il Darimistan era stato vittima di rivolgimenti che Garatha definì subito ‘inferno’.
Da quel momento per lei fu l’esilio: non sarebbe potuta tornare, lei che si era sempre battuta contro l’inferno. «All’inferno,» mi avrebbe spesso ricordato «alle donne è proibito praticare qualsiasi forma d’arte». «Hell is empty and all the devils are here» citava, pestando col dito una notizia sul giornale.
All’inferno Garatha credeva davvero: esso poteva manifestarsi nel nostro mondo in forma di violenza e di sopruso. A quale inferno si riferiva? Non osai mai chiederlo. Aveva una religiosità sincretica, Garatha. Nel suo laboratorio potevi trovare icone acheropite, buddha di giada, antichi corani, santini di san Giuseppe da Copertino.
Col passare degli anni, più il Darimistan diventava infernale, più Garatha diventava darimca: vestiva abiti lunghi e ampi, raccoglieva i capelli a chignon durante la meditazione, sfoggiava vistose collane di pietre semipreziose. Cominciava a mostrare quelle ombre lattee che coprono l’incarnato olivastro delle donne darimche di una certa età.
Al contempo le sue sculture diventavano più semplici e tendevano sempre più a quell’ideale di distacco e di equilibrio formale e strutturale per il quale oggi è universalmente conosciuta. Nei decenni della nostra amicizia ho potuto assistere alla lavorazione di Libertà – in cui una donna che tenta di lasciare l’inferno tocca il basamento soltanto col piede, ghermito da catene; ho visto Garatha trattenere il respiro mentre dava gli ultimi ritocchi a Fratelli, raffigurante una mano, protesa da una grata carceraria, mentre regge dal basso un’intera figura maschile.
Fui io, infine, a ritrovare Garatha senza vita accanto alla sua ultima opera, che interpella non tanto gli storici dell’arte quanto i fisici e gli ingegneri, alla ricerca – occorre dirlo? – di trucchi e inganni. Non praevalebunt, espressione letteralmente miracolosa della sua arte, è un monito contro gli inferni e le dittature d’ogni tipo.
Una figura femminile si erge ieratica nel tradizionale abito nuziale; i fronzoli discendono verso il basamento: una miniatura della capitale darimca.
Tra l’ultimo dei fronzoli e la cupola del Palazzo della Reggenza, ventotto millimetri di cielo.
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