
Un criciverba capace di mettere in scacco il Diavolo in persona in questo racconto di Sara Tirabassi.
Come ogni giovedì, comparve nel suo appartamento romano verso le dieci e trenta del mattino.
Alla luce dei raggi tiepidi che filtravano tra una stecca e l’altra della tapparella si infilò rapidamente un paio di pantaloni a quadri dal taglio non modernissimo, una camicia bianca col collo inamidato, scarpe non nuove ma lustre. Aprendo la porta prese dall’attaccapanni una bombetta impolverata, che sistemò a coprire le corna mentre scendeva le scale.
«’giorno eccoalei unesessanta.» lo anticipò l’edicolante, porgendogli La Settimana Enigmistica.
Pagò, prese la rivista, salutò toccandosi il cappello e raggiunse il bar sull’altro lato della piazza. Sedette a un tavolino e sfogliò il giornale pregustando, ancor più del cappuccino che stavano per portargli, il cruciverba senza schema di pagina 44.
Arrossì violentemente. Bloccato così, come un dilettante, dopo sole tre parole. Un solutore più che abile come lui! E la beffa poi: permangono tra cielo e inferno diceva la definizione, ammiccante. Come a dire ‘se non lo sai tu!’.
“E certo, se non lo so io!” Pensò fra sé.
“Io ci sono passato. Quello che c’è tra cielo e inferno l’ho visto tutto, ma proprio tutto, me lo ricordo come fosse ieri. E ci sono state solo due cose che mi hanno accompagnato per tutto il viaggio: la costante di gravitazione universale e il dolore. E nessuna delle due ha speranze di adattarsi allo schema.”
Ripensò alla caduta, metro per metro, chiedendosi cosa non mutasse nel passaggio dall’alto al basso, dal bene al male, dalla perfezione all’espiazione.
Ripensò all’ingresso nell’atmosfera, alle molecole che gli ustionavano la pelle mentre cadeva tra le luci di una splendida aurora boreale. Aveva bruciato come una stella cadente in quello spazio ora ingombro di detriti metallici: l’uomo aveva riempito di spazzatura perfino il proprio cielo.
Ripensò alla spessa coltre di nubi che aveva perforato come folgore nel suo cieco precipitare, e alla pioggia fresca che per quasi un minuto gli aveva dato sollievo. Al profumo dell’aria in alta montagna, all’odore degli alberi, ai versi degli uccelli che aveva sentito nella sua inarrestabile discesa. Al tramonto lontano che avrebbe visto se i suoi occhi non fossero stati già distrutti da polvere e schegge. Tutta roba che la gente notava, se andava bene, una volta alla settimana, e comunque a quegli idioti fregava solo che facesse bello per andare a sciare e che le foto del tramonto piacessero su facebook.
Ripensò a quando la terra si era aperta per accoglierlo, e pietra e fango gli erano entrati nella carne viva. A vermi e insetti che, incastonati nel terreno insieme alle pietre più preziose, ricoprivano impassibili il proprio ruolo nei cicli naturali. Come si poteva disprezzarli? Stupidi umani!
Ripensò alla roccia fusa che dissolveva le sue ossa, e al caldo infernale –letteralmente– che lo aveva accompagnato da quel momento in poi.
In effetti, c’era una cosa. C’era che gli esseri umani erano stupidi. Sempre e comunque.
Sogghignò, e scrisse: vocali.
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