La baita

Una baita sperduta, vento, antichi ricordi e un toc toc che non promette bene. Un racconto di Adraino Muzzi.

 
Gerome si era appena assopito sulla vecchia poltrona di pelle davanti al caminetto, quando il vento iniziò a sibilare forte attraverso il portone di legno.
 
Un treno rosso a vapore fermo alla stazione, la zia con la gonna lunga a fiori che lo salutava, i suoi occhi sembravano quelli delle bambole, fissi e vitrei; ma zia Luise era morta durante un’escursione in montagna e…
 
Gerome aprì un occhio e vide la coperta rossa sulle sue gambe, la brace arancione ancora viva sotto i tozzi di legno anneriti e i piatti dei rifugi alpini appesi alla parete. No, non si trovava in una vecchia stazione ferroviaria, ma nella baita di montagna dei suoi, finalmente solo dopo le fatiche dell’esame di maturità, per qualche giorno di passeggiate in cerca di funghi.
Il vento stava aumentando d’intensità, foriero di un probabile temporale. Era conscio che avrebbe dovuto spostarsi nel letto sotto il piumone, ma le gambe gli pesavano come tronchi d’abete, dopo la camminata di tre ore che aveva fatto dal paese alla baita. Richiuse gli occhi.
 
Il viso cinereo e gonfio della zia ritrovata in un dirupo, nelle sue cavità orbitali c’erano degli orecchini di vetro.
 
Fu svegliato da un raschiare sulla persiana, gli ricordò il rumore del gesso sulla lavagna. Dei rami, pensò, domani dovrò controllare. Subito dopo, qualcuno, o qualcosa, batté sulla porta, o almeno così gli parve. Gerome balzò in piedi, le pulsazioni a mille, improvvisamente vigile. Rimase in ascolto: il vento, foglie che si agitavano e colpi sulla porta.
«Oh Cristo!» esclamò, «chi poteva esserci in quel luogo sperduto, a quell’ora della notte?»
La sua mente frullò ipotesi come una turbina eolica impazzita.
«Chi è?!» gridò; nessuna risposta, se non ancora colpi sempre più forti.
“Pensa, pensa!” Si trovava isolato da tutto, il paese più vicino era a parecchie ore di cammino… forse la zia che, no, scacciò quel pensiero assurdo che cercava di insinuarsi nella sua mente come un’edera infestante.
Un colpo forte fece gemere il portone. Gerome fu certo che per qualche secondo il suo cuore smise di battere, anche lui consapevole della necessità di non produrre alcun rumore.
«Ok, ok,» può essere qualche animale selvatico, un lupo, o forse un orso, attirati dalla luce e dagli odori della cucina. O magari un grosso ramo che il vento ha strappato. «Comunque» si disse «finché rimango al chiuso sono al sicuro, devo solo mantenere la calma.»
Si sedette sulla poltrona e aspettò.
Silenzio, adesso si sentiva solo il sibilare del vento. Passarono i minuti, i rumori sembravano scomparsi così come erano nati.
Alla fine, per tranquillizzarsi e andare finalmente a letto, decise di aprire un’anta di una persiana per dare un’occhiata. Scrutò nel buio assoluto: prima verso destra, poi verso sinistra, nulla. Poi, mentre stava richiudendo la persiana, davanti alla sua faccia comparve una testa enorme: orbite senza occhi, denti aguzzi; la “cosa” spalancò le fauci ed emise un suono spettrale. Gerome fece un balzo all’indietro e urlò anche lui. Con un calcio richiuse la persiana in faccia a quell’essere e ricadde all’indietro sul pavimento. Rimase accucciato a terra con la testa che gli girava forte. Poi un tonfo, e la porta cedette di colpo. Il mostro, con la pelle a squame gelatinose e un liquido verdastro che gli colava dalla bocca da squalo, avanzò verso di lui. Gerome corse verso la cassapanca e prese il coltellaccio del pane; aveva armi migliori ma si trovavano tutte nel capannone esterno. Alzò il coltello in segno di minaccia, ma la “cosa” gli fu addosso in un istante con un balzo felino.
 
Si svegliò di soprassalto, il cuore in gola, il respiro strozzato in una sorta di apnea post affogamento; “è stato solo un maledetto incubo”, pensò, iniziando a calmarsi. Ma non fece in tempo a gioire, sollevò lo sguardo e vide una bocca enorme, con fili di bava verde e schiere di denti neri putridi, che si spalancava sulla sua faccia. E gli orecchini, gli orecchini della zia Luise.