
Padri e figli, destini in conflitto, una lotta comune che divide. Direttamente dal Laboratorio, un racconto di Maria Rosaria Del Ciello.
“Gli operai in fabbrica non sono strumenti meccanici ma uomini che lavorano.
E non è impossibile, né troppo difficile, mettere in rapporto il lavoro umano con l’ambiente naturale”
(Adriano Olivetti)
Giovanni alza la tapparella per far entrare un po’ di luce.
È mattina presto e il buio macchia ancora il cielo adagiato pigro sopra i palazzi. Solo tra un po’ inizierà a schiarire e, da dietro i casermoni, un tenue arancio sfumato di celeste sporcherà il cielo. Le giornate, a settembre, già iniziano ad accorciarsi.
Nello stesso istante in cui apre la finestra, Giovanni sente il rumore di un treno, in lontananza, e gli viene da pensare a suo nonno, morto pochi mesi prima. Un uomo sradicato dalla sua terra d’origine e trapiantato sull’asfalto duro di Torino.
«La terra è l’unica cosa che conta» ripeteva il nonno «e produce se la lavori, se ci butti il sangue a forza di usare la vanga, svegliandoti all’alba, quando canta il gallo, e andando a coricarti la sera, appena il sole è tramontato. La terra è l’unica che non ti tradisce mai. Più fedele di una moglie e, se la rispetti, non ti delude. Per questo» continuava «la terra oggi è cambiata e non da più i bei frutti di una volta. Perché l’uomo ha dimenticato di rispettarla e lei si sta prendendo la sua rivincita.»
Ma Giovanni è nato in città, in quella metropoli, stretto tra il fumo della fabbrica e le mura dei palazzi. Il fumo per lui è quasi una seconda pelle. Per suo nonno, invece, quella coltre plumbea era il demonio in persona, soprattutto quando di notte sentiva suo figlio Pasquale tossire. Allora cominciava a imprecare in dialetto stretto. Un dialetto che a stento Giovanni riusciva a comprendere.
La notte appena trascorsa Giovanni l’ha passata insonne. Ma non è stata la tosse del padre a tenerlo sveglio.
Lo ha tormentato il pensiero dell’esame del giorno dopo. L’esame che non sosterrà, e il pensiero della bugia che racconterà ai suoi genitori. Una delle tante.
«Domani devo alzarmi presto che ho l’esame di diritto costituzionale» aveva detto la sera prima e sul volto della madre si era allargato un sorriso che a dirle la verità sarebbe stato come commettere un omicidio. Una carezza della donna era volata sulla guancia del giovane.
«Amore mio! Un avvocato devi diventare, che così mi fai fare bella figura.»
Anna e Pasquale, una vita spesa a lavorare e sognare. Sognare di riscattarsi da un passato duro e faticoso. Ora ci avrebbe pensato lui, Giovanni, alto e tanto magro, troppo magro, dice la mamma, e i capelli, anche quelli, troppo lunghi, sempre a sentire lei.
Ma tanto, presto, tutto sarebbe cambiato perché lui, il loro unico figlio, stava per diventare un dottore in Giurisprudenza.
«Il rinnovo del contratto è un diritto» Giovanni aveva commentato le immagini in bianco e nero del telegiornale: storie di operai sospesi per aver aderito a scioperi senza preavviso.
Giovanni conosce il pensiero del padre, scettico e timoroso che la vita possa divorare quel suo unico figlio per poi sputarne le ossa, pezzetto per pezzetto, come ha fatto con lui che, partito dalla Calabria, è rimasto lì a Torino a fare il metalmeccanico da quando aveva sedici anni.
«Ma che diritto e diritto» era stata la risposta del padre. «Quelli non hanno voglia di lavorare. Li manderei a zappare la terra, come faceva tuo nonno.» E aveva cominciato a tossire.
Giovanni, lo sguardo basso sulla minestra fumante, aveva continuato a mangiare. Inutile ribattere alle provocazioni del genitore, inutile spiegare che il lavoro non è solo doveri, ma anche diritti. E che se continuavano così, dopo i contadini, anche gli operai avrebbero perso la dignità di esseri umani.
Giovanni è sicuro che il padre certe cose, in fondo, non le pensa.
«Tutti dobbiamo fare la nostra parte» aveva continuato Pasquale.
Giovanni sa cosa vogliono dire queste parole. Che da una parte ci sono i padroni che ti danno il lavoro e il salario, dall’altra gli operai con il lavoro duro. E se qualcuno vuole cambiare qualcosa non ha altra via che mettersi a studiare e cercare una via diversa. Lui è nato per sgobbare, e questo gli basta.
Giovanni si è svegliato intorpidito in quel letto troppo piccolo, che non è cresciuto insieme a lui, il letto che ha da sempre, in una stanza piccola, ricavata da quello che una volta era un ripostiglio.
Una scrivania è appoggiata in un angolo perché chi studia ha bisogno di un piano d’appoggio.
Quattro mensole occupano la piccola parete alle spalle della scrivania, perché i libri da qualche parte bisogna pur metterli. Una finestra apre un piccolo varco verso l’esterno, ma per far luce c’è bisogno della luce artificiale, giorno e sera.
Quella mattina Giovanni è in piedi prima del solito. Raccatta da sotto il letto un mucchio di foglietti stampati e li ficca svelto dentro una valigetta ventiquattrore di cuoio, quella che il nonno, buonanima, gli ha regalato poco prima di morire.
Non può rischiare che quei fogli passino sotto gli occhi del padre o della madre. Sarebbe la fine per lui. Forse peggio che scoprire che gli esami non li sta dando.
Se solo i suoi genitori sapessero cosa sta facendo e come ha impiegato il tempo negli ultimi mesi, gli taglierebbero i viveri e non lo farebbero più uscire di casa.
Se venissero a sapere che al posto degli esami Giovanni va a riunioni, dense di fumo e di striscioni, in cui si inneggia alla rivoluzione e alla destabilizzazione dell’attuale governo, ecco, Giovanni immagina che lo rinnegherebbero come figlio.
Si chiude in bagno, si lava velocemente, si fa anche la barba, poi va in cucina dove sua madre ciabatta tra fornelli e piani di formìca, preparando la colazione.
La testa china sul latte per non guardare in viso nessuno. Non vuole che trapeli nulla delle sue emozioni.
«Povero Giovanni» dice la madre. «È così stanco. Se la merita proprio questa laurea, vero Pasquale?»
Pasquale grugnisce qualcosa di incomprensibile bevendo rapido il suo caffè poi si ferma sulla porta. Bacia su una guancia la moglie. «Sì, è stanco. Ma siamo tutti stanchi. E lui fa il suo lavoro, che è quello di studiare. La fabbrica apre i cancelli tra mezz’ora e io non so nemmeno se mi faranno entrare. C’è il gruppo di Mario e Antonio che ci fanno muro. Sono come cani arrabbiati. E, anche se mi vergogno un po’, non voglio aggregarmi a loro. I soldi ci servono.»
Anna sorride, lo bacia a sua volta e gli passa una mano tra i capelli: «Quello che fai tu Pasquale, a me va bene.»
«Non so a che ora torno. Siamo in tanti all’esame» dice Giovanni. Finisce in fretta la colazione ed esce di casa, poco dopo il padre.
Quando arriva all’università l’atmosfera è calda, c’è addirittura la polizia schierata all’ingresso. Mai visto prima.
Il gruppetto è chiuso in un’aula della Facoltà di lettere, il fumo denso delle sigarette rende l’aria irrespirabile.
Giovanni ha appuntamento con l’Assemblea operai-studenti. Lì ad aspettarlo c’è Filippo, studente lavoratore alla Mirafiori, che gli ha spiegato nel dettaglio i ritmi e le condizioni di lavoro della fabbrica.
Ci sono uomini di cinquanta, sessant’anni che hanno passato trent’anni lì dentro e non hanno neanche più l’aspetto da uomini, perché hanno tutte le malattie di questo mondo. Il lavoro alla catena porta al deterioramento fisico e mentale.
Giovanni pensa a suo padre e alla tosse che sente la notte. Quella che faceva imbestialire suo nonno.
Ha deciso che non terrà anche lui la catena al collo. Lotterà per liberare da quella catena suo padre e tutti quelli che, come lui, non hanno la forza di lottare.
Pasquale arriva davanti ai cancelli della fabbrica. C’è un gruppetto che cerca di impedire l’ingresso, altri lo tirano per la giacca pregandolo di non entrare, ché oggi è il giorno in cui i sindacati hanno organizzato quello sciopero e la grossa manifestazione per le vie di Torino.
Pasquale si libera da quelle strette, dalle spinte, cerca di avanzare ma alcuni cominciano a lanciare pietre e si spaventa. Continua a farsi largo, urla qualcosa a chi gli si para davanti, finché una di quelle pietre non lo colpisce in testa. Cade e pian piano non sente più nemmeno le suole dei compagni che passano sopra il suo corpo.
Giovanni sta per uscire dall’aula dell’università per andare insieme a Filippo a presidiare i cancelli della Mirafiori. Non è ancora uscito, sta finendo di organizzare quella mattinata e, tra una sigaretta e l’altra, discute su come affrontare la folla di operai che vorranno entrare in fabbrica. Filippo è intransigente, qualunque mezzo va bene per fermare i crumiri, mentre Giovanni cerca di spiegare le ragioni di chi è spaventato da quello sciopero.
È allora che un boato squarcia l’aria. Si sentono delle grida. Giovanni e Filippo escono in fretta dall’aula e il fumo dei lacrimogeni li colpisce dritto agli occhi. Brucia e impedisce di vedere dove si cammina e chi si ha intorno. Solo quando sente il colpo alla nuca, un secondo prima di cadere a terra, Giovanni comprende che i poliziotti sono venuti a reprimere la loro lotta. Vede i volantini uscire dalla ventiquattrore che tiene stretta con una mano e sparpagliarsi sul selciato.
Una pioggia lieve comincia a cadere e Giovanni chiude gli occhi su una macchia scura.
Una macchia d’inchiostro che si allarga dalle parole SCIOPERO e SETTEMBRE impresse sui fogli ciclostilati, quasi sangue nero che cola dalle vene del mondo.
L’11 settembre 1969 viene indetto il primo sciopero generale dei lavoratori metalmeccanici dell’industria privata per il rinnovo del contratto.