Per sempre al tuo fianco

Vincitore del Camaleonte dedicato ad Antoine De Saint-Exupéry, un racconto di DandElion.

 
«Dunque, non sono sicuro di aver capito bene, può cortesemente spiegarmelo con altre parole?»
Riprese:
«Non è molto professionale ammetterlo, ma devo confessarle che mi ha spiazzato. La prego, mi ripeta di nuovo quello che è successo.»
 
Un cortese sospiro, flebile e malinconico, fu la risposta alle parole del dottor Baumann.
Una successione di scricchiolii, metà del lettino, metà dello stiracchiarsi del paziente, interruppero il silenzio che si stava facendo imbarazzante e stentoreo, sfuggendo da dietro l’alto schienale.
Una voce gentile si fece avanti, quasi venisse da molto lontano. Era una voce senile, con un guizzo argentino, senza essere squillante.
«É molto semplice, dottore, io l’ho aspettato. L’ho aspettato tutta la vita.»
Il silenzio si fece gravido di non detti.
 
Nella testa dello psicanalista domande fulminee si intrecciavano tra loro in una danza disordinata e frenetica. Cosa si aspetta tutta la vita? Un grande amore? Ma lei aveva esordito dicendo che non erano stati amanti. Un ricordo? Ma i ricordi si abbracciano per un giro di valzer e poi li si abbandona su una poltrona, ad aspettare il prossimo ballo. Un’idea? Ma prima o poi si smette di aspettare che si faccia viva e forse è proprio allora che ne nasce da qualche parte una brillante, che adombra le altre. Cosa si aspetta tutta la vita? Lei lo sapeva? Lui di certo no.
 
«Non riesco a comprendere..»
 
«Dottore, cerco di spiegarmi. Era bello, ai miei occhi, il mio amico. Miele dolce le parole della sua bocca. Mi affascinava. Lo ascoltavo incantata quando mi esponeva il suo modo di vedere le cose, così pulito e lineare, quasi infantile; i suoi ragionamenti di fanciullo rivelavano una saggezza antica e profonda. Era un vecchio nel corpo di un bambino, un cuore innocente. Senza ombra di offesa, un cuore di cane.»
 
Mentre pronunciava la “c” di cane, una lacrima iniziò a disegnare i contorni della sua palpebra inferiore, salendo silenziosa e senza indugio a ricoprire l’iride dorata, fino a rompere la tensione superficiale e scivolare lungo l’affusolato pendio dei suoi zigomi. Il dottore se ne accorse e trattenne involontariamente il respiro, indeciso, come affacciato su un abisso, se ritrarsi e fermare il dolore della sua paziente o sfamare invece la sua curiosità non ancora appagata.
Optò egoisticamente per la seconda possibilità e rimase in composta attesa, respirando senza fare rumore, tacendo la sua bramosia di sapere.
 
Riprese dunque la voce.
«Vede dottore, quando si ama qualcuno si scende a compromessi, si cerca di cambiare per assestare le cose. Ci si infila in scarpe troppo strette per amore. Invece noi no, noi eravamo un livello piú alto dell’amore, credevo. Volavamo leggeri sopra ogni cosa. Immutati e felici. Io mi lasciavo carezzare la testa e lui mi sorrideva, e io ero appagata. Scorgevo il luccicare dei suoi capelli a centinaia di metri di distanza e mollavo tutto lì dove ero, solo per corrergli incontro festante, felice di ogni istante passato insieme. Saremmo stati sempre insieme. Saremmo stati sempre felici. Questo pensavo. Ci sarebbe sempre stato il suo palmo sul mio collo e saremo stati sempre l’uno per l’altra. Io tutt’ora saprei distinguere il rumore dei suoi passi. Questo non é solo “amore”, questo é molto di piú. L’amore se non lo annaffi muore! Io non ho mai rischiato di morire pur senza essere annaffiata!»
 
«E lui?» Chiese il dottore. «Cosa provava per lei?»
 
«Non so, nutro sentimenti contrastanti a riguardo. Potrei mentire a me stessa, stando oggi così le cose, e dirle che ero corrisposta con la stessa moneta, ma temo che i fatti mi smentiscano.»
Un pensiero doloroso le attraversò il cuore, spezzando vistosamente il suo respiro.
L’aria inghiottita male la fece tossire, un’ottima scusa per far scorrere quattro ulteriori stille a pulire i suoi occhi.
 
«Sta male? Posso aiutarla?»
 
La voce, strozzata dalla tosse, rispose:
«Non si preoccupi, non succederà nulla che non aspetto accada. Sono pronta da molto tempo ormai. Rassegnata.»
 
Una nuova pausa di silenzio si frappose tra le nuove domande che attanagliavano Baumann e le potenziali risposte, tanto che la testa prese a vorticargli. Non era possibile trovare al mondo così tanta dedizione.
Dove era il guadagno nel dedicare una vita intera a qualcosa che di fatto non c’era?
Lo psicanalista infranse le regole e si alzò per controllare lo stato della sua paziente.
La trovò più minuta di come ricordava fosse quando l’aveva vista entrare affamata di qualcuno che la ascoltasse una manciata di settimane prima.
 
Sulle guance scavate, il pelo si era opacizzato, sbiancandosi piú del dovuto in pochissimo tempo. Le orecchie sembravano foglie di salice, non più dritte e attente, protese all’ascolto, ma reclinate, come inattive. Le zampe eleganti e sportive adesso erano affusolate e taglienti, ma in maniera delicata rivelando fragilità come di cristallo. Bella come un fiore notturno, stava avvizzendo.
Le costole si intravedevano sotto il manto.
Baumann si chiese per un istante se davvero non fosse il caso di mollare tutto e tentare di nutrirla, proteggerla, svegliarla dal torpore e provare a restituirle la vita che stava sfuggendo.
 
La volpe, come l’avesse intuito, riprese:
«Dottore, non si preoccupi per me. Il mio corpo é vivo, la mia anima é in attesa. Il mio “io” è morto molto tempo fa, quando ho realizzato razionalmente che non sarebbe tornato, ma vede, il mio cuore non mi permette di razionalizzare. Non posso morire senza averlo rivisto, ma non posso rivederlo perché lui non esiste più: non nella forma che ricordo io.»
 
Il dottor Baumann si sentì stupido, a chiederle di nuovo di spiegarsi meglio, e aprì la bocca come un pesce senza emettere alcun suono.
Un moscerino ignaro trovò l’ispirazione per una nuova avventura e scelse di posarsi sul suo labbro inferiore, non senza provocargli un certo goffo disappunto che suscitò l’ilarità della carcassa della volpe: si scosse in una risata sottile.
Il dottor Baumann arrossì, come nudo.
 
Quella creatura era adorabile.
Le ricordava qualcosa di ancestrale e lontano. Era come la conoscesse, come facesse in qualche modo parte di lui, ma non ricordava di averla vista mai, prima di quando dal nulla lei aveva bussato e chiesto un appuntamento; “Non trattiamo animali”, ma lei era stata così ferma e cortese che lui aveva acconsentito, sentendo qualcosa toccare le corde della sua anima, sepolte chissà quando e chissà dove.
 
Riprese gentile la volpe:
«Non si imbarazzi, può succedere che qualcuno ci scelga come appoggio per un poco, ma poi debba partire.»
 
Baumann la guardo perplesso, come schiaffeggiato, e prendendo coraggio chiese: «Come è successo?»
 
Colpita come da un colpo secco la volpe si irrigidì, spalancò gli occhi, per far fronte al dolore. Baumann si morse la lingua, temendo di averla uccisa con la sua domanda indelicata e diretta.
La volpe si scosse.
 
«Mi disse solo: ‘devo andare, ho una rosa da annaffiare, ma tornerò.’ E in quella bugia io lessi tutto; capii che ero solo l’altra. Solo la compagna di giochi, il trampolino di lancio, il porto sicuro, ma la sua vita era altro e altrove.
Rimasi ferita, muta, come di sale.
Senza pretendere nulla lo lasciai andare.
Pochi mesi dopo, mentre vagavo, disperata e sola, il vento mi sbattè in faccia un ritaglio di giornale. Il suo aereo era caduto nel deserto. Di lui nessuna traccia. Nessuna volpe da cui tornare, nessuna rosa da annaffiare.
Fu un colpo atroce. Atroce e inaspettato.»
 
«Ma allora cosa aspettava, cosa aspetta ancora?»
 
«Razionalizzai, o almeno ci provai. I miei giorni erano diventati una successione di note stonate, monotone e uguali, ripetitivi e inutili. Camminai fino al deserto, mi logorai le zampe. Cercavo l’oro dei suoi capelli, cercavo il colore del grano. Cercavo negli altri il suo odore. Ma niente. I miei sensi mi dicevano che lui non era mai passato da lì. Ebbi come una visione: la concretizzazione di un ricordo. Seppi che che non avrei mai trovato il suo corpo. Lui non era lì.»
 
Baumann trattenne il fiato.
«Mi affiancai a una carovana, corsi con i cammelli. Raggiunsi un porto e mi imbarcai. Piú semplice entrare in una stiva che prendere un aereo. L’impazienza mi affamava. Arrivai a Vienna come un rapace. Lo trovai subito, ma non gli dissi nulla.
Era diverso. Era cambiato.
Non erano solo i suoi capelli ad essere caduti, ma i suoi sogni ad essere morti.
Lo vidi ogni giorno rinnegare un po’ di se stesso, diventare adulto, non come aveva giurato sarebbe stato, ma adulto come volevano che lui fosse.
C’ero sempre, ero lì, ma non mi vedeva più.
Ero in Ateneo il giorno della sua laurea. Ero accanto alla porta del suo primo studio. Dormivo a volte sullo zerbino del suo appartamento, finché non sentivo lo scrocco sganciarsi e allora fuggivo, temendo di essere scacciata.
Io però non l’ho mai dimenticato.»
 
Baumann la guardava impietrito, come se si stesse svegliando in quel momento.
Gli occhi incavati della volpe stavano opacizzandosi, come se quest’ultima confessione le avesse rubato ogni forza.
Respirava sollevando appena le costole, in respiri corti ma non ancora affannati.
 
«Quanto può essere stato stupido? Cosa posso fare io per lei, adesso?»
Disse in un sussurro Il dottor Baumann.
Riaffiorava la sua infanzia, il deserto della Libia. Gli sterminati campi di grano e le corse con quel cane, libero e randagio, che sentiva così suo. Affusolato e fulvo, bello come una volpe.
Ma… forse non era un cane! Forse era proprio una volpe.
Erano passati tantissimi anni da allora.
Strappato al suo Paese, esule insieme ai suoi, avevano aperto un vivaio. Era cresciuto, si era trasferito in Europa, mai aveva dimenticato il suo amico, che non aveva potuto portare con sè.
 
Quanto era stato cieco? Quanto Sordo? Un brivido di consapevolezza lo scosse, come una percossa.
«Sei tu?» Disse incredulo. «Sei davvero tu? Ma se eri qui, perché non ti sei fatta vedere!»
 
Con uno sforzo incredibile, come il suo corpo fosse di marmo, la volpe girò verso di lui gli occhi spenti e guardandolo con infinito amore, sussurrò:
«Io ci sono, continuerò ad essere al tuo fianco: L’essenziale è invisibile agli occhi».