Se solo avessi

Un racconto in cui Adriano Muzzi affronta il tema della perdita e il senso di colpa con semplicità, ma che nasconde un mondo intero di dolore.

 
Nel paese puoi trovare almeno una luce che rimane accesa tutta la notte: la mia. Non è abbastanza forte da oscurare le stelle, ma è sufficiente per consolare chi ha paura del buio, o almeno dovrebbe esserlo per te.
Scrivo queste righe seduto sulla tua sedia. Vedi? Non mi tremano più le mani, e i ricordi scorrono fluidi come i rivoli d’acqua negli scivoli dei parchi estivi; quei parchi che ti piacevano tanto, ti facevano ridere, ma ti facevano anche paura: ti ricordi? Mi stringevi forte la mano prima di lanciarti giù.
Poi le cose precipitarono, senza freno e senza una ragione. Iniziai a considerarti uno sbaglio, una mia frivola debolezza e tu diventasti il parafulmine della mia rabbia incandescente.
Quando scappavo da te mi chiedevi sempre di lasciare almeno accesa la luce del cancello: non lo facevo mai, ero sempre troppo occupato a pensare come rendermi la vita più difficile. Rincasavo sempre più tardi, come quando si ha una malattia che peggiora ogni giorno, e ti vedevo correre verso di me: spalancavi l’uscio, saltavi i tre gradini prima del viottolo e piombavi sulla strada veloce come un centometrista.
Mi abbracciavi sul divano e ci addormentavamo insieme: io affogavo nei miei incubi e tu volavi nelle terre dolci e colorate dei tuoi sogni infantili.
Anche “quella sera” si stava ripetendo tutto, ma quando uscisti in strada non c’ero io che parcheggiavo, ma un auto rossa e veloce, con i fari abbaglianti come stelle. Ci fu un tonfo sordo, una frenata stridula e odori metallici nauseanti.
Adesso le lacrime mi rigano il viso reso ispido dalla barba incolta come sciatori che solcano la neve fresca, e riesco a immaginare come sarebbe stata la nostra vita se…
…se solo avessi lasciato accesa quella “luce”, se solo avessi capito che l’odio che provavo per te era solo repulsione verso me stesso, verso tutti i miei sogni irrealizzati, verso tutti i miei rimorsi e le cose non dette. Sì, non riuscii a dire mai “ti amo” nemmeno a tua madre. Ma non se ne andò per quello, probabilmente se ne andò perché iniziai a bere per trovare una scusa obnubilante alla mia ignavia.
Vedi, bambino mio, non c’è niente di più facile per l’uomo che inventare scuse, e poi è come un vortice che ti risucchia in un mondo sotterraneo di apatia, di visioni grigie, di paure insensate; alla fine si arriva ad avere paura della paura. E tutto si paralizza come un insetto che cade in un catino pieno di melassa.
Se solo tu fossi ancora qui, ti racconterei delle storie di pirati e marinai, di mondi lontani e magici, ti carezzerei i capelli sussurrandoti nelle orecchie e cercherei di riempire i tuoi sogni di cose fantastiche. Ma soprattutto proverei a riempire le tue ore di veglia con la presenza di una persona che ti vuole bene, e che “c’e” quando ne avresti più bisogno.
Se solo avessi lasciato accesa quella luce ora tu saresti qui con me a parlare di supereroi e di figurine di calciatori.
Adesso quella luce la lascerò comunque sempre accesa. Per te.
Questa è la mia speranza e la mia condanna.

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