
Una distopia di Adriano Muzzi. Ricchi e poveri, chi ha e chi non ha: un dualismo destinato a durare per l’eternità.
Pioveva tutto il giorno, tutti i giorni, oramai da anni.
Tom non si ricordava da quando fosse iniziato, ma sapeva che un fenomeno incessante e ripetuto dilatava le sensazioni temporali; come dita che si muovevano in un blocco di gomma liquida il tempo si allungava, si assottigliava, si bucava e rimaneva appiccicato alla mente umida e scura. A Tom sembrava che non potesse esistere niente che non fosse in qualche modo bagnato.
Attraversava le strade fradice facendo lo slalom tra carcasse di automobili abbandonate e masse ondeggianti di “bio” muniti di ombrelli fosforescenti. Lui non usava mai l’ombrello, anche se sapeva che la pioggia era sporca, del tutto non potabile. Molte persone la raccoglievano e la bevevano perché non avevano la possibilità di acquistare acqua da bere, ma proprio per questo si ammalavano. Oltre all’acqua c’era stato anche l’esaurimento delle coltivazioni tradizionali, quasi tutti gli alimenti erano sintetici. Solo pochi ricchi si potevano concedere acqua limpida e cibo “vero”.
Tom doveva, come ogni giorno, combattere per la propria sopravvivenza. Questa volta però voleva mangiare del cibo con un minimo di sapore, e bere acqua che non sapesse di piscio di cane. Sapeva cosa fare.
Il quartiere dei ricchi era un’area della città che era stata completamente chiusa al pubblico e c’erano poliziotti privati e “droni guardia” ovunque lungo il perimetro di recinzione. Tom scese lungo uno dei tanti tombini scoperchiati e iniziò un lungo e tortuoso percorso nelle fogne. Avanzò nei cunicoli servendosi di passerelle e griglie laterali. Quando gli sembrò di aver percorso abbastanza strada, uscì alla prima scaletta non corrosa completamente dalla ruggine. Mise lentamente la testa fuori per vedere se c’erano guardie nei dintorni. Nulla, sembrava tutto tranquillo, solo pioggia.
La villa che incontrò per prima era illuminata e da fuori si vedevano ombre che si proiettavano sulle tende bianche, sembravano entità senza volto che vagavano nella nebbia. Il primo piano aveva delle sbarre alle finestre, ma il secondo no; si arrampicò lungo un graticcio. Un drone gli passò vicino, ma, grazie al buio, e al fatto che era completamente zuppo di acqua e fango, il robot non lo percepì agli infrarossi. Tom scavalcò il balcone e diede una sbirciata dalla finestra socchiusa: cibo in ogni sorta di vassoio, tanto, e bevande colorate a volontà. All’interno, seduta di spalle, c’era anche una donna, bionda e con un vestito lungo bianco. La cosa che lo colpì di più era il vestito completamente asciutto, una rarità in quel mondo fradicio e arrugginito. Non fece in tempo a terminare il pensiero che vide un lampo di luce e sentì un dolore lancinante ai lombi; cadde riverso a terra con gli occhi sbarrati, lacrimando per il dolore.
Il buio lo avvolse subito.
Il maggiordomo, con ancora in mano la pistola, entrò nella stanza e chiese alla signora: «Lo porto alle vasche di riciclo?»
La donna bionda si girò con aria distratta e, mentre assaggiava una pietanza rosa su un piatto di argento, rispose con un cenno della testa. Lui uscì, si chinò sul cadavere e per un attimo incrociò lo sguardo vitreo del ragazzo; gli abbassò le palpebre con un rapido gesto della mano.
L’acqua aveva diluito le lacrime di Tom, si erano perdute per sempre nella pioggia.
Pioggia sporca.
I commenti sono chiusi.