
Da tre giorni, l’aria era umida e immobile.
Le nuvole sullo Stretto di Messina si avviluppavano in cumuli gonfi e bianchi che sembravano celare al loro interno un ribollire cupo come l’aria grigiastra, restituita dal riflesso di un mare piatto come una lastra di vetro. Era quell’ora del pomeriggio che già volge verso una luce meno gialla e più rosea.
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Una feluca al largo, verso Scilla, increspava l’acqua; si scorgeva la vedetta sulla lunga antenna a scrutare le acque circondata dai suoi colleghi sui [i]luntri[/i]; era quelli che guardava Nicola Denaro, detto Colapesce in onore di un’antica favola di pescatori, dalla spiaggia di Capo Peloro.
Era un Novembre molto caldo e gli ultimi pesci spada si erano confusi e attardati nelle correnti dello Stretto troppo a lungo, dando agli uomini la possibilità di cacciarli ancora per qualche settimana e garantirsi così un buon inverno.
Le donne, allegre come chi ha la pancia piena, strofinavano i panni sporchi su grosse pietre pomice e li risciacquavano a mare, cantando in attesa degli uomini sulle barche.
Un grido acuto spezzò l’aria del pomeriggio interrompendo ogni altro suono:
«Eccolo! Eccolo! Chiù addritta! Aunni brisci u capu! Dda! Dda! Eccolo! Pigghilu! Pigghilu! Pigghilu!!!»
L’antenniere si sbracciava, reggendosi con le gambe ben strette al sottile albero maestro. Intanto i rematori dei luntri erano partiti alla ricerca del pesce avvistato, seguendo le indicazioni dell’antenniere e quelle, più specifiche, della vedetta sulla loro barca.
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Colapesce seguiva quei movimenti con nostalgia; gli mancavano gli schizzi d’acqua sul volto e la sensazione del pesce spada lì, sotto la barca: non una semplice preda, ma un avversario guizzante e pronto a combattere.
Uno dei luntri si era staccato dagli altri, virando prima verso Cannitello e poi di nuovo su Capo Peloro, segno che l’equipaggio era all’inseguimento. La silhouette dell’arpionatore si stagliava a metà tra il mare e la costa calabrese.
Colapesce contrasse i muscoli allo stesso ritmo di quelli dell’uomo sulla prua, mentre lo guardava lanciare la fiocina acuminata sotto il pelo dell’acqua.
I rematori si fermarono a osservare oltre le basse fiancate. Il pesce spada diede uno strattone, la corda a cui era legato l’arpione cominciò a svolgersi nella cesta accanto al timone. Era il momento di assecondarlo nei suoi movimenti fino a fargli perdere le forze.
Ciò che non poteva vedere, Colapesce lo ricordava. Mentre osservava la feluca virare e i luntri prepararsi al rientro, decise di chiedere una seconda possibilità all’armatore.
L’armatore Costanzo era un uomo di mezza età, che in gioventù aveva prestato servizio in Marina e si era poi arricchito commerciando col Marocco. Aveva grande esperienza del mare e gli piaceva mantenere un rapporto diretto coi suoi uomini. Quando non partecipava alle uscite come timoniere della feluca, aspettava sulla spiaggia il rientro delle sue imbarcazioni e pagava gli uomini personalmente.
Colapesce lo raggiunse che i luntri erano già ormeggiati e gli uomini aspettavano di ricevere la [i]giornata[/i]. Qualcuno vedendolo fece una battuta, Costanzo lo mandò a casa con la metà del compenso.
«Desideri, Nicola?» Chiese l’armatore dopo aver pagato e congedato i pescatori.
«U sapissi bene quello che desidero, Signore. Voglio tornare a fare la cosa per cui sono nato.»
«E sei sicuro di essere nato per fare la vedetta? L’ultima volta hai mandato a catafascio la spedizione e messo in pericolo gli altri uomini.»
«Gliel’ho detto che cosa avevo visto. E nessuno ci vede meglio di me nell’acqua.»
«Certo, me l’hai detto: hai visto una [i]trovatura[/i]. E quindi ti sei tuffato giù dall’antenna per controllare, abbandonando l’intero equipaggio della feluca. Dì un po’, ti credi il vero Colapesce?»
«Ma io l’ho visto! C’era dell’oro là sotto! E ho pensato che se fossi riuscito a prenderlo sarebbe stato meglio del pesce spada.»
«Ti ricordo che il vero Colapesce ha fatto una brutta fine: per inseguire un tesoro, è finito a reggere sulle spalle il peso della Trinacria.»
«Però ha avuto abbastanza fiato da arrivarci e la vista per trovarlo. E vossia u sapi che nessuno sotto e sopra l’acqua ci vede meglio di me.»
«La vista non è l’unica cosa importante, ragazzo. Ci vogliono responsabilità e rispetto per i compagni.»
«Si risparmiasse la lezione, professore, che di libri non ne ho mai mangiati. Io mangio quello che pesco, e ho fame. Salutamu.»
La fame si fece sentire sulla strada del ritorno. Lo stomaco di Nicola rimbrottava e si riavvolgeva su se stesso: era più di una settimana che restava a terra, se l’armatore avesse continuato a rifiutarlo avrebbe dovuto trovare un altro modo per sfamare la sua famiglia. Una fitta acuta lo costrinse a fermarsi. L’aria si fece pesante, sentiva la testa pulsare. S’arrestò, sedette sulla sabbia, la testa tra le mani. Davanti a lui, l’umidità condensata dava l’illusione di una Calabria così vicina da poterla toccare, mentre il sole mandava i suoi ultimi raggi prima di nascondersi dietro l’ombra dei Peloritani. Tutto sembrava in pace.
Colapesce cercò di allineare il respiro allo scroscio delle onde, cominciò a tirare pietre sul mare piatto tentando di farle rimbalzare. Una voce alle sue spalle lo deconcentrò, sbagliò un lancio:
«È proprio stronzo, Costanzo.»
Era Gianni, che l’armatore aveva punito per la battuta.
«Anche tu non scherzi. »
«Dovremmo farlo noi a lui, uno scherzetto.»
Disse Gianni, fissando un punto tra il mare e il golfo di Bagnara.
«Uno scherzetto, dici? Ma non farmi ridere.»
«Invece noi due dovremmo ridere molto, ma solo tra di noi. Prendiamo in prestito un luntro stanotte, peschiamo con le reti e lo riportiamo prima che gli altri si sveglino. Non se ne accorgerà nessuno e noi potremo farci qualche soldo.»
«Non è così brutta come idea, ma la sorveglianza?»
«A quella penso io.»
L’umidità degli ultimi giorni pareva essersi condensata tutta nell’aria di quella notte, un alone opaco attorno alla luna la faceva sembrare ancora più grande nel riflesso sull’acqua, calma come in un dipinto a olio ma gonfia, cupa. Spaparanzato sui sedili del luntro, Gianni si fregava le mani:
«Chistu è tempu di pisci, compare! Sento che abbiamo fatto un affarone.»
Nicola non rispose; fissava il lungomare di Reggio illuminato dai nuovi, prodigiosi lampioni elettrici che il sindaco aveva inaugurato il giorno prima. Era inquieto, gli sembrava che il mare non facesse lo stesso rumore di sempre.
«Tra un po’ si alza la [i]lupa[/i], te lo dico io.»
«Meglio, ci coprirà il rientro. Alziamo noi le reti intanto, ho un buon presentimento.»
Le reti erano pesanti, più di quanto i due si aspettassero. Gianni era entusiasta e appena l’ebbero tirate sul luntro volle controllarle, arrischiandosi ad accendere una fiammella.
«Ehi, ma che c’è lì?»
Gli occhi di Colapesce s’illuminarono: in mezzo a quel guizzare aveva intuito uno sbrilluccichìo diverso, più giallo.
«Oro! Quello è oro!»
I due compagni si abbracciarono, si misero a raccogliere i frutti di quella pesca miracolosa.
«Monete, anelli… è un vero tesoro! Siamo ricchi!»
Gianni saltellava, mentre Colapesce osservava il bottino.
«Secondo me là sotto c’è ancora di più. Potrei scendere e riempirmi le tasche, saremmo ancora più ricchi.»
Gianni si fermò per soppesare le parole del compagno.
«Vuoi fare veramente Colapesce? Amico mio, il cielo sta rischiarando. Dobbiamo riportare la barca, prima che se ne accorgano.»
«Ma questo è il tesoro che ho visto l’altro giorno dall’antenna, è enorme! Per questo Costanzo non mi fa più lavorare: vuole tenerselo tutto per sé. Prendiamo quel che possiamo, prima che sia troppo tardi! Questa trovatura è nostra!»
Gianni acconsentì, riluttante:
«Va bene, ma un tuffo solo. Dovremmo già essere a casa.»
Colapesce tolse la camicia, l’aria stantia di quel Novembre gli si appiccicò addosso. Prese un bel respiro e si gettò nel ventre oscuro del mare, guidato dalla luce della luna e dalla sua vista prodigiosa.
Gianni rimase solo, a misurare il tempo al ritmo dello sciabordio delle onde. L’euforia aveva lasciato il posto a un’ansia tutta nuova: quella di chi possiede qualcosa che non vuole perdere. Intanto la notte scoloriva, le prime intenzioni purpuree dell’alba ridisegnavano il paesaggio dei Peloritani. Della nebbia invocata da Colapesce nessuna traccia, e lui non riemergeva. Gianni cominciava a temere di essere scoperto. Una luce si accese, a Messina, dietro una minuscola finestra. Gianni remò verso casa: era passato troppo tempo, di sicuro Colapesce era morto o era stato trascinato via dalle correnti. Non poteva rischiare di venire scoperto e perdere quel tesoro che adesso era tutto suo.
Colapesce riemerse che Gianni era già lontano. Le tasche gonfie di monete e le braccia cariche di gioielli lo avevano rallentato nella risalita. Quando riaprì gli occhi alla superficie e si rese conto di essere solo soffocò un’imprecazione: in condizioni normali sarebbe tornato tranquillamente a Messina a nuoto, ma era mezzo morto per la fame e la stanchezza, e avrebbe dovuto rinunciare a parte del suo carico e affidarsi alle correnti capricciose dello Stretto.
Il mare era sempre più gonfio, sotto la superficie piatta era tutto un ribollire. Per la prima volta, Colapesce si sentiva a disagio nell’acqua. Tirò un sospiro, svuotò le tasche e liberò le braccia per nuotare agevolmente; gli rimanevano tre catene d’oro massiccio al collo, sufficienti a garantirgli una vita dignitosa.
Stava per dare la prima bracciata quando un rumore terribile, che sembrava sprigionarsi dalle viscere della terra, proprio sotto il mare, stravolse il mondo.
Durò trenta infiniti secondi e le coste tremarono alla sua potenza, poi vennero avvolte da una nuvola polverosa, più spessa di qualsiasi lupa.
Colapesce cacciò un urlo, gettando bracciate velocissime verso il punto in cui una volta c’era casa sua. Non aveva mai desiderato come in quel momento di abbandonare il mare per tornare alla sua terra. Era così concentrato in questa sua corsa disperata che non sentì nemmeno la gigantesca onda del maremoto alle sue spalle.