Corridori

Siamo tutti corridori o qualcuno si ferma e agisce? Un racconto di Roberto Bommarito in cui, nascosti, si possono rinvenire i temi che lui stesso ha scelto per la Two Days Edition.

 
«Ventitré» dice mio padre. Sta masticando un’arancia. Si pulisce la bocca col dorso della mano. La pelle è bruna, indurita, cotta dal sole. «Ventitré» ripete, mentre mastica.
«Ventitré di che cosa?»
Ha ancora l’energia del codardo nelle gambe. Sono pronte a scattare, ma non possono, non oggi. Oggi mio padre è costretto a rimanere seduto su una roccia, la più scomoda che ho trovato. Si mette un altro spicchio in bocca, mastica, inghiotte col gorgoglio di una tubatura otturata. Poi allunga la gamba e fa un gesto col mento: «Scarpe. Da quando ho cominciato a correre ne ho consumate ventidue paia. Queste sono le ventitreesime».
L’orgoglio con cui lo dice, vorrei tanto spaccargli la faccia. Era un bell’uomo, mi sono sentito dire più volte, mostrando la sua foto a qualche ragazza. Io in quel volto non ci ho mai riconosciuto il mio, ma di solito non lo dico. Invece sorrido e rispondo solo: «Sì». Anche se subito dopo giunge la domanda che odio più di tutte: «Ma perché tuo padre ha preso a correre, lo sai?»
L’ho sempre odiata, quella domanda, perché non conosco la risposta.
Una catena gli lega la caviglia a un albero d’ulivo. Il tronco è una esse distesa, indeciso se arrendersi alla forza di gravità o puntare verso il cielo.
«Quanti padri hai catturato finora?» mi domanda col tono di chi fa due chiacchiere seduto al bar.
«Incluso te?»
Fa cenno di sì con la testa.
«Uno» gli dico.
Le sue mani sono più forti delle mie. Era una delle poche cose che ricordavo da bambino. Le dita tozze che tenevano il foglio del Corriere mentre leggeva e commentava le bombe intelligenti sull’Iraq, le indecisioni dei politici, le previsioni del tempo che si dimenticano il giorno dopo e quindi che cazzo di senso ha leggerle?
«Così sono io il primo che acchiappi?»
Oggi mio padre non è un ricordo offuscato dagli anni. Oggi lui è invece voce, movimenti e occhi che mi guardano senza sapere chi sono.
«Già: sei il primo» gli rispondo, senza dirgli che non sono un cacciatore di padri professionista, non sto facendo questo per conto di qualche moglie ferita. Anche perché mia madre non c’è più. Mia madre non corse via. Lei no. Ed è un peccato che non lo abbia fatto, perché fu davvero una madre di merda, distratta, egoista. «Sei il primo e l’ultimo» gli dico.
Le rughe sul suo volto sono parentesi. Parentesi attorno agli occhi, attorno alla bocca, che racchiudono anni di sguardi e di parole che sono appartenuti ad altri ma non a me.
Come figlio poteva andarmi meglio.
Un gruppo di amici un giorno si svegliò con dei capelli grigi dove prima non ce n’erano e un senso di nostalgia per cantanti che ormai erano acqua passata. Erano dieci adulti, i primi dieci, adulti loro malgrado. Così presero a correre. Letteralmente. Si comprarono delle Nike e si misero a correre il più lontano possibile dal lavoro, dalla famiglia, dalla vita.
Da me.
«Hai già chiamato la polizia?» Lo stronzo si preoccupa di questo. Se ho già chiamato le autorità.
«No, non ancora» gli rispondo.
Ai primi dieci se ne aggiunsero altri. Prima in Italia: Lazio e Toscana. Poi in Francia. Così divenne una nuova moda in tutto l’Occidente. Un fenomeno, come dissero i giornali, gli stessi che scartava con le sue dita spesse. Il fenomeno dei padri che correvano.
«E che aspetti a farlo? A chiamarli?» mi domanda, esitando prima di mangiarsi l’ultimo spicchio.
«Toglimi una curiosità» gli faccio. «Perché hai abbandonato tuo figlio? Non dire: “responsabilità”, non voglio sentire quella parola. Voglio una ragione vera, se non altro più vera di quelle che sparano alla tele». La mia voce trema, per un istante trema. «Dammi una ragione che non ho mai sentito prima».
Lui mi attraversa con lo sguardo, fissandomi come se fossi trasparente e alle mie spalle, come un’ombra, ci fosse il suo passato.
«Non so». Si raschia la gola. «Forse perché non sapevo come fare il padre».
Per qualche secondo mi dimentico di respirare, mentre lui consuma l’ultimo spicchio. Poi gli dico di togliersi le scarpe. «Avanti».
«Come?»
«Sì, hai capito bene: fallo».
Se le sfila piano, guardandole come se volesse trattenerle a se con il semplice sguardo. Così come tante volte avrei voluto essere guardato io. Me le porge, preoccupato. Hanno la suola consumata, ma posso leggere ancora il numero.
43, la mia stessa taglia.
Mi tolgo le scarpe e indosso le sue. Mio padre mi fissa tutto il tempo, le rughe sulla fronte sono un’altra parentesi, ma questa non riesce a contenere i suoi pensieri. Posso intuirli senza fatica. Si starà domandando che cosa ho in mente. Forse inizierà pure a dubitare che io possa non essere un semplice cacciatore.
Gli tiro addosso lo zaino, insieme con tutto il resto che fino a un attimo prima era mio. Tengo per me solo la bottiglietta dell’acqua.
«Mi abbandoni qui, così legato?» mi fa. «Perché?»
Perché grazie alla sua assenza io non ho mai imparato come essere un figlio. Questo, però, non glielo dico, né glielo dirò mai.
«Perché sì» gli rispondo.
E lui dice qualcos’altro, ma a questo punto mio padre è solo una voce lontana alle mie spalle, che presto tornerà a essere un ricordo.
Suo figlio sta correndo.