
Tra passato e futuro, increspature e depurazioni. Vincitore del Capitolo del Camaleonte dedicato a Valerio Evangelisti, un racconto di Maurizio Bertino.
La cittadinanza era disposta sui lati della piazza, i bambini davanti, ognuno con il proprio terminale, pronti a riprendere la scena per poi descriverla con minuzia nel compito a casa assegnato dagli insegnanti. Il vento leggero scompigliava i lembi delle fasce, laddove i nodi avevano ceduto rischiando di scoprire porzioni di pelle. I genitori, preoccupati, intervenivano subitanei con nastri adesivi e fermagli.
Il Supervisore, proprio al centro dello spiazzo di cemento, ruotava su se stesso posando il proprio sguardo ora su un adulto, ora su una bambina, riconoscibile per la fasciatura rosa. Selezionato tra gli individui con massima acutezza visiva, il Supervisore sfruttava tutte le sue venti diottrie per scorgere segni d’impurità nel gruppo a lui assegnato.
Infine si fermò. Melissa lo vide posare il suo sguardo su di lei, troppo a lungo. Disperata, cercò aiuto negli sguardi di chi la circondava. La sua anziana madre, ripetendo «No, no, no!», la stava già ispezionando fascia a fascia, fino all’urlo «La spalla!». Melissa portò la mano alla spalla indicata dallo sguardo della madre e trasalì: una delle fasce si era sfilacciata, forse quando aveva sfregato contro la porta uscendo di casa.
Il supervisore alzò un braccio e la indicò.
Il ronzio arrivò prima di lui. Gli abitanti del villaggio seppero della sua venuta quando ancora non lo si poteva vedere neppure dal campanile della chiesa. Il sibilo era entrato nelle loro teste durante il sogno e, passando le ore, si faceva sempre più vicino e forte, costante come una liberazione che sapeva di condanna. Il Conte si poté preparare a riceverlo e per l’occasione fece tornare i contadini dai campi impiegandoli nella pulizia della via principale. Ogni capo famiglia aveva portato un dono e l’aveva disposto sull’altare dietro cui il Conte attendeva, chi una semplice cinta e chi una veste intessuta dalla moglie per l’occasione, .
Infine arrivò, curvo sotto il peso della vibrante spada che portava sulla schiena. Indossava una palandrana nera e grossi occhiali rotondi che, simili a una maschera, ne coprivano quasi interamente il viso.
«Padre, siamo sollevati e grati che siano state ascoltate le nostre richieste, non sapevamo più come fare, la piazza è inutilizzabile da mesi e la puzza di zolfo che si propaga dall’increspatura è divenuta insopportabile, come lei stesso può appurare di persona ora che è arrivato».
«La Chiesa ha detto di venire e sono venuto. Sì, sento lo zolfo e la sacra spada vibra. Il viaggio non è stato vano. Non chiamatemi padre, per voi ora sono un Dio. Chiamatemi l’Unico. Suona meglio» lo disse con una lieve increspatura nelle labbra, come un ghigno.
«Ma questo è inaccettabile! Come osa equipararsi a Dio?» sbottò il Conte mentre tutti i padri, le madri, i bambini e gli anziani del villaggio procedevano a segnarsi con la croce.
Fulmineo, Unico sparì alla vista e riapparve dietro una fanciulla, la più bella del villaggio, afferrandola per i capelli e sbattendola in mezzo alla via, di fronte all’altare pieno di doni.
«Come osa? Chi l’ha mandata?» urlò il Conte.
«Non mi basta ancora, no» la risposta serafica di Unico, intento a osservare la fanciulla. «Ne voglio un’altra. Sua figlia, questa volta» e sparì per riapparire dietro alla figlia del Conte, afferrarla per i capelli e spingerla insieme all’altra.
«Uccidete quest’uomo!» il Conte stesso aveva sguainato la spada. Tre uomini, armati di rastrelli, si fecero avanti bellicosi e subito caddero con la gola squarciata. Unico era apparso dietro ognuno di loro operando con un coltello apparsogli in mano a una velocità tale che nessun occhio umano avrebbe potuto identificarne i movimenti. Alla vista del macello, il Conte si fermò, tremante. Uomini, donne, bambini e anziani del villaggio si fecero un nuovo segno della croce.
«E ora mostratemi l’increspatura, sono venuto per fare un lavoro e sono una persona onesta, devo meritarmi il vostro pagamento». Unico sogghignò riapparendo vicino alle due fanciulle e concupendole con lo sguardo. «Che non si faccia girare voce che Unico non è professionale. Conducetemi, Conte, vi prego. E no, lo leggo dal vostro sguardo, preferirebbe me ne andassi. Non si può. La Chiesa ha interesse nella buona riuscita della missione: la terminerò e infine me ne andrò con i miei due doni e voi potrete continuare a vivere felici e contenti in quest’epoca oscura. La seguo».
Melissa fu portata al centro della piazza da due assistenti del Supervisore. Sapeva cosa stava per accadere, ma il viverlo in prima persona le appariva inverosimile, quasi fosse solo un incubo dal quale si sarebbe presto risvegliata.
«Posizionatela di fronte a me». La voce del supervisore le giungeva ovattata, come da un’altra dimensione. Sua madre si era già arresa e ora stringeva a sé il figlio minore, suo fratello. Immaginò lo stesse ammonendo «Che ti sia di lezione, impara». I bambini erano intenti nel riprendere la scena, per molti di loro non era la prima volta, ma il Governo aveva imposto alle scuole che le depurazioni fossero sempre documentate dagli stessi studenti secondo la logica del “conosci il tuo nemico se vuoi sconfiggerlo” e il nemico era il peccato della nudità di fronte alla collettività. Solo gli occhi, sia nei maschi che nelle femmine, potevano essere lasciati scoperti, per il resto del corpo erano necessarie le fasce.
«Spogliatela, lentamente. Che abbia il tempo di riflettere sul proprio peccato». I due assistenti cominciarono a svolgere le fasce, dalle braccia, con calcolata lentezza, come da richiesta del Supervisore. I loro occhi tradivano il disgusto, l’idea stessa che un corpo potesse vedere la luce naturale ed essere visto da consimili senza le fasce a coprirlo era per loro quanto di più degradante potesse esistere, l’avevano imparato fin dall’infanzia.
Freddo. Man mano che veniva liberata dalle proprie costrizioni, Melissa cominciò a sentirlo, il gelo. Fu presa dal tremore. Fissò i suoi occhi in quelli del Supervisore, stavano brillando. Fremeva anche lui, era risaputo che l’infliggere la pena capitale per liberare la cittadinanza dagli individui peccatori poteva essere vissuto dai supervisori come un atto di pura estasi, di reale vicinanza con il divino che scendeva sulla terra e si faceva carne brandendo il sacro bastone e infliggendo in prima persona i colpi mortali.
«Molto bene, la peccatrice è nuda. Che si dia inizio alla depurazione». Disse infine il Supervisore alzando il sacro bastone e preparandosi a sferrare il primo colpo.
«Oh sì… Sì! Un’increspatura davvero meravigliosa! La sente anche lei, Conte? La sente quanto sta sibilando la mia spada? Scommetto che la sentono fino a Roma e forse anche più lontano, questa è un’increspatura di livello superiore!»
Il Conte si era fermato alcuni passi più indietro, al limitare delle ultime case prima della piazza. Nel suo volto era dipinto l’orrore, per quel sibilo che sembrava arrivare dall’inferno, per quell’increspatura danzante nell’aria, per il destino della sua amata figlia ora eletta a dono, ma soprattutto per quell’uomo non uomo che stava danzando felice apparendo ora su un tetto, ora di fronte all’increspatura, ora dentro alla stessa, brandendo la propria spada e mostrandogliela. Si limitò ad assentire.
«Meravigliosa! Una svolta narrativa di livello massimo! Datata… Aspetti, Conte… Datata tremila anni nel futuro a partire da questo momento! Stiamo per fare la Storia, mio caro Conte! Quello che sta per accadere qui creerà un evento alternativo di proporzioni ciclopiche, come neppure io stesso posso immaginare! Ma del resto, lei non sta capendo nulla di quello che le sto dicendo, vero? Mi lasci ridere di gusto per la sua ignoranza! E le basti sapere che la Chiesa si rallegrerà di quello che sto per fare, e non poco!»
Il Conte non seppe rispondere in altro modo se non arretrando di alcuni passi. Unico sembrava aver perso la ragione, se mai l’avesse davvero avuta, e nel mentre delle sue farneticazioni l’increspatura era andata allargandosi e ora sembrava attrarre verso di sé l’aria stessa. Un vento sempre più forte, diretto verso essa, stava infatti sollevandosi man mano.
«Eccolo lì, con il suo bastone, pronto a colpire l’indifesa! Oh, sento il terrore della giovincella, oh come lo sento. E ha freddo! Trema la poveretta, tutta nuda di fronte ai suoi simili! Eccomi, piccola! Eccomi a te!» E nel dirlo, Unico si posizionò proprio nel mezzo dell’increspatura con la spada, che lui stesso faticava a tenere ferma per quanto vibrasse, dritta davanti a sé. «Che si dia inizio alla mattanza!» Cominciò a rotearla, e a gridare, e a ridere, saltando ora a destra e ora a sinistra, scomparendo e ricomparendo in ogni angolo della piazza.
«Conte, la sua spada… Sanguina!» esclamò un contadino indicando Unico.
A ogni fendente, la spada seminava sangue spruzzandolo in ogni dove. Il volto di Unico era ormai una maschera rossa, la piazza stessa sembrava una tavolozza che l’uomo, o cosa fosse, andava macchiando in ogni sua parte.
E d’un tratto tutto finì.
Melissa, lurida di sangue, nuda, sola, urlò.
Il Supervisore giaceva di fronte a lei, squartato dal basso ventre alla mandibola, vertice alto del macabro componimento. I due assistenti erano riversi alla sua sinistra e alla sua destra, braccia, gambe, tronco e testa posizionati in fila a comporre i due lati di una croce di sangue il cui corpo centrale era composto dalle viscere dei padri e delle madri e degli anziani che fino a un attimo prima facevano parte del pubblico. Gli unici sopravvissuti all’improvvisa furia, i bambini, erano già intenti a caricare, piangendo, i propri filmati sui social network.
Il sibilo era cessato, l’increspatura sparita, l’odore di zolfo dissipato dall’aria fresca della sera. Il Conte, piangente, non poté fare altro che osservare sua figlia e la fanciulla più bella del villaggio allontanarsi al seguito di quell’uomo che imponeva di essere chiamato Unico e che ora lo salutava con la mano mentre con l’altra molestava i suoi guadagnati doni.