
Combattere anche quando tutto sembra perduto, sperare nonostante tutto, andare avanti testa bassa e determinati. Una distopia di Angelo Frascella.
Avanziamo in fila per due, scortate da carcerieri, lungo una strada ora vuota, un tempo traboccante di auto. Indossiamo tutte una divisa: uno straccio grigio e sudicio. Vogliono farci apparire uguali. Come lo sono loro: i Perfetti, come amano chiamarsi.
Vedo un venditore di quella sostanza grigia che considerano cibo. Contiene tutte le sostanza nutritive che ti servono, dicono gli inservienti quando mi porgono la scodella puzzolente, infatti guarda come sei ingrassata.
«Quella è casa mia.»
Ho appena il tempo di voltarmi verso la finestra che sta indicando Elena, quando sento intimare: «Silenzio!»
La voce, così perfetta che pare provenire da uno di quei vecchi film di una volta, arriva un istante prima della scossa elettrica. Vedo Elena piegarsi in due dal dolore. Poi si rialza e, nonostante tutto, mi sorride. È un ringraziamento silenzioso per non essere intervenuta in sua difesa, come di solito avrei fatto. Nei pochi minuti in cui siamo libere di parlare non fa altro che ripetermelo: «Trattieni la rabbia. Il tempo dell’impulsività è finito. Devi farlo per tutte noi.»
Lo so. Ma faccio fatica a contenere il desiderio di girarmi verso il carceriere e sputargli in faccia. Così alto, bello, muscoloso che pare fatto di plastica: «Cosa aspettate? La merenda? Forza camminate, prima che vi fulmini tutte.» Non c’è collera in lui, ma la coscienza che tutto deve essere così com’è.
Riprendiamo la marcia verso il porto, strisciamo i piedi, in scarpe consunte.
«Starai bene nell’isola delle donne.» Dice Jonathan. È anche lui uno dei carcerieri. Sembra più gentile, ma l’ho visto picchiare a sangue una mia compagna, perché aveva guardato verso il muro che ci separava dai nostri uomini.
Stringo i denti.
Jonathan continua: «Hai un marito? Anche lui vivrà bene nell’isola degli uomini.»
Il mio Simone, bello e dolce. Ripenso ai nostri baci, e a lui dentro di me, le mie urla strozzate per non farmi sentire. E poi le gambe in alto per tenere il suo seme dentro il più a lungo possibile.
Jonathan non molla: «È colpa vostra. Con consumo, inquinamento, desiderio di cose inutili avete quasi distrutto il mondo. L’unica cosa buona che avete fatto è creare noi Perfetti. E ora la specie più forte vince, la più debole si estingue.»
È vero. Li abbiamo creati noi, selezionando i geni, in modo che fossero intelligenti, forti, che non invecchiassero, che si potessero generare in uteri artificiali.
Perfetti.
Se non ci fossimo scordati di dargli i sentimenti.
Siamo vicini al venditore di proteine. L’odore mi assale. Mi ritrovo a vomitare addosso a Jonathan. Inondo scarpe e pantaloni. Ci sarebbe da ridere, se non avessi messo a rischio le nostre vite.
Mi alzo lenta e guardo Jonathan negli occhi. Cerco un bagliore di umanità. Nulla. Mi preparo alla morte.
Invece lui inizia a ridere. Si piega in due. Le altre guardie ridono anche loro. Giganti muscolosi squassati da uno spasmo lunghissimo e vuoto.
«Siete così buffi, voi umani, così imperfetti» mi dice quando si calma. «Ora in marcia. Il porto è lontano.»
Camminiamo in silenzio, coperte di uno straccio grigio e sudicio. Vogliono farci apparire tutte uguali.
Ma alcune di noi sono speciali. Quelle che come me, hanno scoperto il passaggio che ci separava dai nostri compagni. Quelle, che come me sotto il vestito nascondono il miracolo di una vita nuova.