Un racconto della guest star dell’edizione di marzo 2016, Lorenzo Marone!
Ho una storia da raccontare. Una brutta storia.
Per dieci anni sono stato un volontario del NORB, Nucleo Operativo Recupero Bambini. Il mio compito consisteva nel rintracciare i neonati non dichiarati alla nascita. Non dovevo far altro che prelevare il piccolo e condurlo al Centro di Smistamento, dove si decideva del suo futuro. Era un lavoro piuttosto semplice e solo alcune volte si era costretti a usare la forza. Nella maggioranza dei casi i genitori, una volta scoperti, si rassegnavano e consegnavano pacificamente il bimbo. Conosco, però, un soldato che è stato costretto a uccidere un padre che aveva reagito.
Sono nato trentuno anni fa, poco dopo l’approvazione del Progetto Recupero Bambini e, come molti dei miei coetanei, anch’io non ho un padre e una madre. Anzi, sarebbe meglio dire, non li conosco, non ho ricordi di loro. Sono stato prelevato in fasce e affidato allo Stato. Non so neanche dove sono nato, la mia venuta al mondo è un enorme buco nero. Il Governo ci definisce “I Prescelti”, alcuni stronzi ci chiamano “Figli di nessuno”, altri, semplicemente, “Figli di Dio”. In ogni caso non abbiamo un cognome, solo un nome e una sigla tatuati sotto il polso.
Non abbiamo diritto di sapere chi sono i nostri genitori, né di conoscere eventuali fratelli. Solo quando uno di questi muore, si è informati con una breve nota del Ministero. Quando un giorno mi arriverà la comunicazione, i miei genitori avranno, finalmente, un nome.
Ma, in realtà, non sono tanto curioso. Perché il Piano si applica solo alle famiglie che il Governo ritiene incapaci di provvedere in modo adeguato a un bambino. Noi “Figli di nessuno” siamo, in realtà, figli di tossicodipendenti, di criminali, di barboni, alcolizzati, violenti, e chi più ne ha più ne metta. Lo scarto della società, insomma, la gente di cui non importa a nessuno appunto.
Il Governo a un certo punto ha deciso di porre un freno all’ondata di criminalità, si è pensato che fosse giunto il momento di creare una società perfetta, una civiltà senza macchie. Un mondo senza peccati. Il Piano è servito proprio a questo, a spezzare la catena di degrado e inciviltà che si tramandava di padre in figlio. Non dovendo più fare i conti con nuovi soggetti a rischio, con i cattivi del domani, la società è progredita. Almeno, così dicevano tutti. Un po’ come fece Hitler con la selezione della razza ariana. Ci hanno talmente bombardato con il messaggio del popolo perfetto che per tanto tempo ho creduto anch’io a questa stronzata, tanto da diventare volontario del NORB.
Poi, un giorno, ho incontrato lei.
Mi trovavo in un quartiere popolare, avevamo avuto una soffiata, una giovane madre senza marito che si era nascosta in un piccolo appartamento all’ultimo piano di un palazzone. Uno dei vicini l’aveva fregata, denunciandola e intascando la ricompensa.
Affinché tutto funzioni, infatti, servono persone che collaborino con il NORB. D’altronde, ogni governo che voglia instaurare l’ordine ha bisogno di un sistema corrotto, di informatori sparsi sul territorio. E il NORB ha una fitta rete di venduti che cooperano per pochi spiccioli. Senza il loro aiuto sarebbe impossibile venire a sapere di ogni singola nascita. Molte donne, infatti, decidono di partorire in casa, per non dichiarare il bambino.
A ogni modo toccò a me sfondare la porta. Dentro c’era una ragazza sulla trentina che allattava. Ci guardò con occhi di panico e iniziò a piangere. Lo fanno tutte, o quasi. Diedi uno sguardo veloce in giro, l’appartamento era minuscolo, ma tutto sembrava in ordine. Anche il bambino era pulito e curato. Per un momento, un brevissimo istante, dubitai; in quella casa non vedevo traccia di degrado, non c’era sporcizia, trascuratezza, nessun pericolo per il piccolo. C’era solo una madre con suo figlio. Ma non c’era un padre. E questo il Piano non lo tollera.
Quando afferrai il neonato, lei cominciò a urlare e mi si avvinghiò addosso, poi guardandomi dritto negli occhi disse: «Ti prego, non lo fare per me, fallo per lui. Non togliergli la madre…»
Rimasi immobile, lo sguardo fisso nel suo. C’era qualcosa in quegli occhi, una luce strana che mi folgorò, e quasi mi sembrò di conoscere quella donna da sempre. Eppure era una ragazza normale, come tante. Ma un ordine è un ordine, non potevo fare nulla. Un collega le diede uno spintone per togliermela di dosso. Durante il ritorno tenni il bambino con me. Profumava e aveva un’aria serena. Forse stavamo sbagliando, e per la prima volta pensai che stessimo commettendo una terribile ingiustizia. Quella madre era in grado di occuparsi del figlio, era evidente. Cercai di pensare ad altro. D’altronde, che potevo fare? Ero un semplice soldato. E poi, per prendere una simile decisione, il Governo doveva avere avuto le sue buone ragioni. Mi accesi una sigaretta e non ci pensai più. Se vuoi far parte del NORB, devi imparare a eseguire gli ordini e a voltarti dall’altro lato. Mi dimenticai di quel pomeriggio, di quel brutto palazzone in periferia e del bambino profumato. Mi dimenticai di quegli occhi profondi che mi avevano implorato. Almeno fino alla settimana successiva.
Dovevamo portare a termine un altro recupero nello stesso quartiere di merda, un paio di isolati più a nord. Quando passammo davanti a quell’edificio, mi tornò in mente la giovane madre. Per un momento pensai di salire e andare a vedere come stava, ma fu solo un attimo, non avrei potuto farlo, rischiavo il licenziamento. Mi venne da chiedermi se per caso mi fossi invaghito di quella donna, ma poi arrivammo a destinazione e non ci pensai più. Facemmo quello che dovevamo fare e ci mettemmo sulla via del ritorno. Ma dopo pochi metri qualcosa cadde dal cielo, proprio davanti alla nostra macchina. In un primo momento pensai a un cornicione di uno dei tanti palazzoni fatiscenti che ci cingevano, ma le urla provenienti dall’esterno mi fecero subito capire che mi sbagliavo. Scendemmo dall’auto. A terra c’era il corpo di una giovane donna con gli arti in posizione innaturale, come una marionetta adagiata su un palcoscenico. Una grossa macchia di sangue si allargava sotto la testa. Guardai in alto per capire da dove si fosse gettata. C’era già un mucchio di gente affacciata. Capii subito che il palazzo era quello che già conoscevo, dove viveva la giovane madre dallo sguardo profondo. Mi osservai le mani tremolanti e pregai prima di accovacciarmi, ma fu inutile: era lei, con gli occhi sbarrati ad ammirare le nuvole, occhi senza più intensità, svanita, come il mio ultimo briciolo di coscienza.
Restai a fissarle il polso con il nome tatuato per non so quanti minuti.
Si chiamava Vittoria.
La sera tornai prima a casa. Non avevo fame, desideravo solo mettermi a letto, cancellare la brutta giornata, il ricordo di quegli occhi e del corpo sul selciato. Ma non ci riuscii. Per la prima volta non fui capace di voltarmi dall’altro lato. Mi sentivo responsabile dell’accaduto. Era anche colpa mia. Così presi la decisione.
La mattina dopo mi recai al Centro di Smistamento. Non mi ci volle molto per risalire al piccolo. Gli era già stata affibbiata una sigla. La annotai. Avrei seguito quel bambino, lo avrei tenuto d’occhio da lontano, sarei intervenuto se avesse avuto bisogno di un aiuto. Sarei stato il suo angelo custode fino a quando non fosse diventato adulto. Quel poco che potevo fare l’avrei fatto, per dare al piccolo una speranza, per risarcirlo in parte del futuro che gli avevo rubato. E per farmi perdonare da quegli occhi che chissà per quanto mi avrebbero fatto compagnia la notte. Avevo solo un’ultima cosa da fare: tornare in quel palazzo.
La porta dell’appartamento era stata sigillata. La aprii facilmente e fui dentro. Era ancora tutto al suo posto. Non mi ci volle molto per trovare ciò che cercavo, in un cassetto, sotto alcuni maglioni: una foto della giovane madre e del suo bambino. Me la infilai nel portafogli e uscii. Avrei conservato la fotografia fino a quando lui non avrebbe avuto l’età per comprendere che quella bella ragazza sorridente era sua madre. Quel giorno, forse, non mi sarei più sentito in debito e sarei potuto tornare a guardare avanti.
Mi avviai verso casa con animo più sereno, quasi riappacificato con me stesso. Già sentivo tornare il buonumore; sapevo di aver fatto la cosa giusta, sentivo che c’era stato qualcosa più grande di me a spingermi, una forza misteriosa che aveva indirizzato le mie azioni. Non capivo cosa fosse, ma non mi interessava, dal giorno dopo mi sarei buttato tutto alle spalle.
Mi sbagliavo.
A casa trovai una lettera nella cassetta della posta.
Una nota del Ministero.
Una di quelle note.
Avevo sempre pensato che la comunicazione della morte dei miei genitori non mi avrebbe scosso più di tanto. Invece cominciai a sudare freddo, non tanto per l’emozione, quanto per la rabbia. Era la mia serata, quella, la mia rinascita, il mio guardare avanti. Non me la sarei fatta rovinare. Avevo atteso la lettera per una vita, avrei potuto aspettare ancora un giorno. Gettai la busta sul tavolo in salotto e mi infilai sotto la doccia.
Ma ancora una volta quella strana forza misteriosa si impossessò di me e mi spinse a leggere subito la nota, anche se non ne avevo voglia, anche se sapevo che quel nome sul foglio non mi avrebbe ridato ciò che mi era stato tolto. Corsi in salotto a piedi scalzi e con le mani ancora gocciolanti aprii di getto la busta, convinto di non provare alcuna emozione nello scorrere quelle brevi righe.
Mi sbagliavo, ancora una volta.
Perché la nota non conteneva né il nome di mio padre né quello di mia madre.
In quella lettera c’era il nome di mia sorella, morta suicida a ventinove anni.
Si chiamava Vittoria.