Fragile

Neri tentacoli che dal passato immobilizzano il presente. Selezionato durante l’Ottava Edizione della Quinta Era con Alessandro Forlani come guest star, un racconto di Raffaele Marra.

 

 
All’età di quarantaquattro anni Nino fece ritorno al suo paese. A quel che restava, del suo paese.
Era un pomeriggio d’estate quando, superati i filari di prefabbricati dove vivevano i superstiti, si inerpicò a passo lento verso la sommità della collina. Il paese lo accolse con un silenzio che non aveva più nulla a che fare con il frastuono di quella sera di novembre quando il mondo sembrava volersi scuotere di dosso i suoi fragili parassiti.
Nino aveva otto anni, a quel tempo, e in pochi minuti aveva visto la sua normalità infrangersi in una fragorosa nuvola di polvere e calcinacci. Quella polvere che aveva divorato il suo letto, i suoi fumetti, i suoi biscotti preferiti, il suo pallone, il suo pesciolino rosso e i suoi genitori.
Sentendosi come un anziano che arranca a schiena china, Nino attraversò le strade ancora cristallizzate in quel fatidico attimo del passato, abbandonate alla miseria e all’incuria. Tutto era rimasto immobile, inalterato, fotografato nell’istantanea distruzione di una notte che aveva separato tempo da tempo.
Un po’ come nella sua vita, pensò Nino.
Unico superstite della sua famiglia, aveva vissuto in un’altra città, cercando in qualche modo di affrontare il mostro indicibile che aveva divorato la sua esistenza. Quel mostro dai neri tentacoli che si diramavano sulle pareti e sui tetti, che stritolava le case urlando con la voce di mille demoni affamati, che ti raggiungeva dal suolo facendoti vibrare come una foglia secca nella tormenta.
Camminando tra i ruderi, Nino imboccò quella che un tempo era la strada di casa sua. Percorse il tragitto con il cuore in gola, accompagnato dalla brezza e dal frinire incomprensibile delle cicale, fino a raggiungere il cumulo di mattoni e calce dove aveva vissuto la sua infanzia.
Sentendo le gambe tremare, si accosciò fino a posare una mano sul selciato polveroso, con gli occhi puntati sui tentacoli di radici che, in qualche modo, rappresentavano la nuova vita di quei luoghi.
Ancora una volta pensò alla sua, di vita, alla solitudine, all’incapacità di creare una nuova famiglia, alle notti insonni e al terrore che la terra, prima o poi, tornasse a danzare sotto i suoi piedi.
Lasciò che una lacrima violasse l’immobilità di quel mondo ormai estraneo, poi i suoi occhi scorsero un bagliore tra le rovine.
Si alzò, fece due passi, si chinò nuovamente. Rovistò rapidamente con una mano e la vide.
La catena.
Istintivamente si guardò i polsi, ma non vi era più alcun segno. Nella sua mente, invece, il passato finalmente tornava a vibrare. Si sollevò tremando, rivedendo intorno a sé i muri di una casa che, per anni, era stata prigione e inferno, udendo le urla di suo padre ubriaco, sentendo il dolore delle sue sevizie.
 
Tornò giù ai prefabbricati che era ormai buio. Nessuno lo riconobbe.
Passò la notte all’aperto, come era avvenuto tanti anni prima.
Al mattino tornò su e, nell’immobilità e nel silenzio, iniziò a pensare alla ricostruzione del suo passato, del suo paese e, prima di tutto, della sua stessa anima.