FUORI SCALA

I Peccati Capitali simulati e controllati in laboratorio? Si può! Un racconto di Eleonora Rossetti.

 
Il riverbero del neon mi acceca, svegliandomi del tutto. Mi agito appena tra le lenzuola che sanno di chiuso. Tossisco e ogni suono appassisce contro l’imbottitura delle pareti. Quasi subito Pelatone apre la porta, fiero scienziato nel suo camice più bianco della stanza. Sembra tanto Mastro Lindo, ma non glielo dico, altrimenti riderebbe. E quando ride, significa che sta per fare lo stronzo.
Si siede accanto a me e, come ogni mattina, esamina gli elettrodi che mi ha impiantato in testa. Accosta il rilevatore alle mie tempie e controlla i dati trasmessi.
«Allora, Elena, come ci sentiamo oggi?»
«Vaffanculo.»
«Su, non te la prendere. Te l’ho detto, fa parte dei test.»
Test un corno. A sapere che sarei stata trattata come un topo da laboratorio, non avrei accettato, neanche per cento euro al giorno.
«Voglio andare via.»
Sorride. Brutto segno. «Non abbiamo ancora finito. E poi, vuoi davvero buttar via quest’occasione? Passerai alla storia. Pensaci.»
Mente. LUI passerebbe alla storia. Sulla mia pelle. Sta inseguendo i suoi sogni di gloria mentre continua a svalvolarmi il cervello cercando di capire come e dove nascono i peccati capitali. Per farne cosa? Spiegarli? Sopprimerli? La scienza a braccetto con la religione, come no… Gli avrei riso in faccia il giorno del colloquio, se non avessi avuto un fottuto bisogno di soldi.
Il mio stomaco ringhia. Pelatone guarda il vassoio carico di cibo deposto su un tavolino dall’altra parte della stanza, lo stesso che ho fissato ieri per tutto il giorno, standomene sdraiata sul materasso. Avevo appetito, ma non mi sono mossa; non ne avevo voglia. E adesso, con il fatidico bip del pulsante che Pelatone sta pigiando, tutto cambia di nuovo. Un solletico insopportabile mi attraversa le meningi. Nuovo vigore, nuovi pensieri. Finalmente me stessa… e qualcos’altro.
«Mangia pure.»
«Non basta» mormoro, guardando le cibarie sul tavolino. Ho fame. Sono oltre la fame. «Di più. Carne. Dolci… ma anche lasagne, prima. Due porzioni. No, quattro.»
Pelatone traffica ancora un po’ col rilevatore e si dilegua. Guardo a lungo la mia figura nell’ampio specchio sulla parete principale. So che mi sta osservando. Non voglio farlo. Non voglio dar spettacolo…
Bip.
Salto giù dal letto e mi accanisco sul vassoio, divorando tutto in meno di un minuto. Prima che finisca, un inserviente porta un secondo giro di cibarie, che disintegro nelle mascelle. Poi ne arriva un terzo. E un quarto. Al quinto, non ce la faccio più e rigetto tutto.
E ricomincio da lì. 
Non lo vedo, ma so che Pelatone è là dietro, a bersi champagne. Mentre io m’ingozzo di vomito.
 
Un formicolio alle tempie. Grugnisco, indugiando nel sonno. Ma che ora è?
C’è qualcosa che striscia sotto il lenzuolo. Solletico, sulle natiche. Un tocco, una mano. Stringe fino a farmi male.
Scatto a sedere urlando nel buio. Quella stessa mano che stava giocherellando con l’elastico dei miei slip mi schiaccia le labbra, fin quasi a soffocarmi.
“Buona, Elena. Buona. Fa parte dei test.”
Pelatone.
Mi dibatto, ma lui è più forte di me. Con un braccio mi costringe al letto, con l’altro mi avvicina qualcosa alla testa.
Bip.
Quel suono mi cancella ogni reazione e crollo sulle lenzuola. Le mie mani annaspano, sentono il suo corpo accanto al mio. È nudo. Bip, ancora, e quel tocco mi accende come una lampadina. Sento la sua pelle e la desidero per me. Lo desidero dentro di me, in ogni modo, anche il più…
No, non voglio…!
Lo accolgo tra le mie braccia, mentre calde lacrime cominciano a scendermi sulle guance. Pelatone le ignora e mi domina all’istante, saltandomi sopra. Le sue mani indugiano senza delicatezza, io addirittura affretto le sue mosse, concupiscente e smaniosa di carne. Compiace ogni mio tocco e io faccio lo stesso. Continua, e continua, mentre piango. Mentre mi rendo conto di cosa mi sta facendo… di cosa IO sto facendo.
«No, no, non ti opporre» sussurra, «o i dati vanno fuori scala…»
Nelle tenebre, lo sento ridere, mentre affonda.
 
La porta si spalanca, le luci si accendono. È l’inserviente che porta la colazione. Si avvicina al letto, guarda il mio profilo rannicchiato sotto il lenzuolo e si china per appoggiare il vassoio sul comodino.
Scatto prima ancora che capisca che sono sveglia. In un lampo mi ritrovo seduta, il mio braccio che stringe la sua gola, e un secondo dopo sento lo spezzarsi della trachea. Lo lascio scivolare sul pavimento asettico e balzo giù, ignorando il freddo ai piedi scalzi.
L’allarme suona quasi subito, ma volo alla porta prima che possa essere sigillata e la spalanco con una spallata e un ruggito.
Non sono più la cavia di nessuno!
La stanza dove mi trovo adesso è ben diversa. Lampeggianti arancioni alternano la mia ombra a quella di Pelatone che mi fissa, spiazzato, dalla postazione del quadro di controllo. Diversi terminali attorno a noi stanno riportando grafici ed elaborazioni a tempo di record. Fuori scala, è il messaggio che lampeggia sugli schermi. Il mio cervello in diretta, chissà se stanno registrando la puntata.
«Elena…»
Non dico nulla, non voglio ascoltarlo. C’è solo l’odio. Per ciò che mi ha fatto, per ciò che ha ancora intenzione di fare.
Gli sono addosso in un attimo. La sorpresa lo ha tenuto inchiodato alla sedia, non ha neanche provato a reagire. Salto sulla scrivania che ci divide spodestando carte e cianfrusaglie e gli tiro un calcio così forte alla mascella da sbilanciarlo. Si schianta a terra con un tonfo, senza un lamento, mentre io scivolo giù e cerco freneticamente un’arma, tastando alla cieca. Le mie dita si chiudono sul rilevatore, quell’affare che mi ha accompagnato in ogni fetente giorno di prigionia.
Te lo do io il fuori scala!
Mi avvento su Pelatone, con una mano gli blocco il petto e con l’altra do sfogo a quel ruggito che mi sta facendo esplodere la testa. Un colpo, due, tre, frantumando zigomi e denti, mandando in pezzi delicati componenti elettronici che gli finiscono in bocca e nel naso. L’allarme sta continuando a suonare, luci lampeggiano ovunque, e forse presto qualcuno arriverà e mi fermerà, ma non m’importa. Ora siamo solo lui e io. Lui è la chiave di tutto. Se finirà lui, finirà tutto. Continuo a ripetermelo e a percuotere, fino a farmi male.
Dopo qualche secondo, mi risollevo a contemplare la mia opera, il braccio svuotato e il respiro mozzo. Mastro Lindo è diventato Mastro Rosso. Candeggio sbagliato, avrebbe detto la pubblicità.
Eppure lo stronzo sorride. Sta morendo, è irriconoscibile, con quella faccia ridotta a poltiglia, ma sorride.
«Fa parte… dei…» biascica, prima di spirare a occhi aperti.
Tra le mie dita viscide di sangue, il rilevatore caccia l’ultimo bip della sua carriera, con un messaggio sul display, lo stesso su cui si sintonizzano tutti i monitor.
Test completato.