Gli occhi sgranati

Azioni che portano a irrimediabili conseguenze, sogni che si dimostrano porte d’accesso all’oscurità più profonda. Terzo classificato nella Seconda Edizione della Quinta Era con Andrea Atzori nelle vesti di guest star, un racconto di Giancarmine Trotta.

 
Mancavano una manciata di minuti.
Il caldo della soffitta, quel maledetto ticchettio che veniva dall’orologio e qualche domanda scimunita del mio compare mi nauseavano più di un uomo in divisa.
La porta del bagno era aperta, quasi mi chiamasse a pisciare ancora una volta. Centrai il buco senza mani, mentre quel deficiente guardava nel vuoto e chissà a quale puttana stesse pensando.
Gli parlai e rinvenne lì dov’era, sudando.
«Tra poco scendiamo Linù. Stai bene?»
Cercò di rispondere con gli occhi e proprio il silenzio, accompagnato dall’apertura delle palpebre, mi convinsero del contrario. Mi stavo giocando la libertà con un cacasotto dagli occhi sgranati alla Totò Schillaci. Riuscii pure a sorridere.
 
Il ferro buono era nei pantaloni.
In mano stringevo una Beretta 92 scarica, ma l’agitavo deciso, tanto che lo sguardo angosciato della commessa mentre riempiva il sacco coi soldi mi rinforzava l’animo e ammorbidiva le percussioni del cuore che sentivo nel mio petto tra un urlo e un altro ai presenti.
Lui menava e basta: un pugno al Direttore, uno schiaffio alla cassiera a cui aveva strappato la camicia e nel sacco i piccioli per giocare a tombola. L’avrei picchiato io se avessi avuto il tempo e la possibilità.
Poi li sentimmo e il sogno di abbandonare per un po’ questa terra amara si sgretolò come l’argilla assetata d’estate.
 
Io avevo il Direttore e lui la cassiera.
«Arrendetevi!»
«Siete circondati.»
Dal megafono parlava uno sbirro con una voce conosciuta. Tutto stava per finire, per sempre.
Mentre Lino mi supplicava di trovare una soluzione stringendo il collo della donna come una gallina da spennare, pensai che di sbarre ne avevo viste pure troppe in quarant’anni e che stavolta non sarebbe andata come nei film del lunedì sera.
«Andiamo Linù.»
«Dove Gaetà?»
«Vieni dietro di me e muoviti piano.» Cambiai tono e lo bloccai prima che ammazzasse la ragazza senza volerlo. Io l’avrei sacrificata volentieri per scappare, ma non aveva senso ucciderla così.
«E lasciala! Lo vedi di che colore è diventata! Prendi il sacco e coprimi le spalle.»
 
All’uscita del supermarket erano tanti. Troppi.
Chiesi dieci o cento volte la macchina per salvare la vita al Direttore. Il ferro buono era sulla sua tempia e io li guardavo aumentare di numero e posizionarsi, poi puntare le armi e attendere un segnale.
Lino si mosse chissà come e perché. Da quel momento sentii bruciori sul viso, poi vidi un lampo dovuto alla retina e il caldo colare del mio sangue.
 
Oggi, dopo mesi, sogno ancora quel giorno e solo il finale varia. Alcune volte mi muovo io e sparano, spesso si muove Lino. Poi penso che dal buio di questo posto, che ha le sbarre ma non è un carcere, nulla ha più senso, neppure scoprire come sia andata veramente.
Il proiettile che mi ha tolto la vista, che mi ha costretto all’oscurità profonda, è ancora incastrato tra la mia carne e i miei pensieri.
E oggi, quando ripenso agli occhi sgranati di Schillaci, quegli occhi che i miei non rivedranno più, non riesco più a sorridere.
Sono solo e al buio.