
Eccoli.
Già lo immagino: lui impiegato, lei commessa, budget limitato.
Soliti convenevoli, che palle.
Ammicco, stringo le mani, sorrido al moccioso che avrà due anni, forse tre.
Entriamo, spiego, rappresento, rispondo alle domande.
A volte penso che non fa per me.
Eppure vivo di questo e vivo bene. Sono nel giro buono e non mi posso fermare.
Impreziosisco le parole quando parlo del salotto.
Parlano.
Gesticolano.
Quelli così mi stanno sullo stomaco, ma devo vendere, è il mio lavoro.
Mi chiamano, finalmente.
“Angelo la casa ci interessa, la zona è baricentrica, l’esposizione ci aggrada. Quanto hai detto che costa?”
“Trecentomila e vi anticipo che il costruttore tratta poco, quasi nulla, come potete immaginare”.
“Sì, ok, il prezzo sarebbe giusto, però vorremmo fare dei lavori e non ci staremmo più”.
Mi incupisco, salta tutto, già lo so.
“Che tipo di lavori? La casa è nuova, pronta per essere tinta e ammobiliata”.
“Il pavimento della camera, ad esempio, dove vorremmo un parquet, poi questo muro tra cucina e salotto, meglio l’open space”.
“Ma è portante!”
“Angelo sono un architetto, si fa una cerchiatura e si apre, solo che costa e non ci stiamo più”.
Mi avvicino alla porta.
Non mi seguono.
Guardo il soffitto, sbuffo, il moccioso piange, loro discutono senza sapere un cazzo.
Nervoso, li evito con lo sguardo. Apro il portone d’ingresso e finalmente capiscono.
Non ho tempo.
Non posso.
Lei, finora in silenzio, accenna qualcosa che neppure voglio ascoltare.
Non ho tempo.
Non posso.
Li saluto, sbrigativo.
Restano lì, a guardare una casa che non avranno mai.
Mai.
Squilla il telefono, è Arianna.
“Nulla”.
“Come mai, era perfetta per i signori!”
“Hanno iniziato a trovare scuse, lavori, dettagli”.
“Peccato, ma non dispero per nulla, ho altre coppie interessate, ti aggiorno a breve”.
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Oggi cambio giacca, l’immagine è importante.
Parcheggio e sento in lontananza voci.
Due bimbe identiche, genitori sulla quarantina, benissimo.
Fingo interesse per la loro vita, accarezzo una delle due e prometto delle caramelle in agenzia. Cosa mi tocca fare.
Eppure, devo.
Loro sono gentili, timorosi sulla concessione del mutuo.
Li rassicuro, so di poterli aiutare.
Le domande si fanno concrete, riconosco gli occhi del compratore, faranno l’offerta giusta.
Andiamo in agenzia.
Arianna mi aiuterà a gestire la loro euforia, i sogni, le aspettative. Cose che non fanno più per me.
Io telefono al costruttore, faccio un passo avanti.
“Arriva un’offerta per la casa in via Dell’Arancio, hanno fretta di abitarci”.
“Perfetto”.
“Accettala, sono le persone giuste”.
“Ok, certo. Sto acquistando un terreno lì, in zona, ci vengono quattro villette a schiera, ma le faccio solo se ci sono i contributi”.
Rabbrividisco, ma non se ne avvede.
Lo saluto.
Nello studio del notaio mi sento a mio agio.
Le segretarie hanno tacchi alti, culi sodi. E sono sveglie.
Chiedo, ricevo.
Sorrido, ricambiano.
Magari gli faccio schifo, ma sanno mentire.
Che poi non cerco nulla, ho già troppi casini.
Arrivano i signori, il direttore della banca, il costruttore. E il notaio.
Firme, saluti, auguri.
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Sono lontano, ormai.
I conti all’estero attivi, con gli zeri giusti.
Sorseggio un Margarita con doppio lime, come piace a me.
Qui non sono più Angelo. D’altronde era un ossimoro, o lo è diventato negli anni.
Vorrei tornare in Italia, almeno per morire.
Chissà.
Leggo i giornali, sul tablet.
Stanno arrestando molti politici per corruzione. Fanno bene.
Nelle pagine di cronaca non si parla d’altro, ormai da giorni. Clicco l’articolo, curioso.
Trovata una terza abitazione dello stesso costruttore con resti umani nei pilastri e nelle mura. Gli inquirenti pensano a vittime di mafia, fatti sparire dietro un compenso.
Spengo il dispositivo.
Penso alle gemelline, saranno cresciute.
Rido, di gusto.
E ordino un altro Margarita, con doppio lime.