Il pianoforte del re folle

Madrid, 10 agosto 1759
 
L’orologio a pendolo, accanto alla credenza, segnava già le dieci e tre quarti. Matteo smise di fissare le lancette e cominciò a camminare avanti e indietro. «Basta, al castello ci andrò da solo.» Prese la borsa ma proprio in quel momento bussarono alla porta.
Il viso dello zio era cereo, lo sguardo cupo.
«Perdonami, mi hanno trattenuto a teatro. Ti devo parlare.»
«Cosa è successo?»
«Re Ferdinando sta male.»
Matteo sgranò gli occhi. «È grave?»
«Temo di sì. Non mangia da una settimana. Il medico non l’ha potuto neanche visitare.»
«Di nuovo gli scatti d’ira?»
Farinelli si mise le mani sulla fronte. «Ieri ha morso il ministro.»
Matteo tirò un calcio alla borsa. «Maledetti! Lo stanno facendo impazzire!».
«Sì, non gli daranno pace finché non abdicherà, ora la matrigna sarà contenta.»
Sbuffò allargandosi il colletto della camicia. Andò al catino e si fece scorrere l’acqua sul collo e sul bavero della giacca. Prese un lungo respiro ma il refrigerio non frenava i ricordi. Non doveva accompagnare suo zio fuori Madrid. Lo aveva lasciato con gli occhi sereni, da un mese senza quella stupida sangria del dottor Purcell.
 
Madrid, 27 giugno 1759.
 
Matteo alla finestra si tastava il ciuffo sulla nuca. La carrozza ancora non si vedeva, eppure suo zio gli aveva promesso di arrivare puntuale per salire al castello. Sentiva già i tasti del pianoforte. Riaffioravano le sue parole della sera prima. «Ma no che il re non storcerà il naso, gli ricorderai suo fratellino, quando gli insegnava le scale». Pover’uomo, gli ultimi tempi l’avevano proprio segnato. Gli tornarono alla mente i suoi occhi affranti al capezzale della regina. Le mani gelide di Barbara sollevate sul viso in lacrime, il ritiro mesto in sala musicale, le melodie che risuonavano nel selciato, il feretro e il corteo oltre la cancellata.
Neanche il verde di Villaviciosa lo teneva aggrappato all’esistenza.
Ecco finalmente la carrozza, suo zio teneva sottobraccio il nuovo progetto. Giunsero in cima al colle e percorsero il lungo viale alberato; l’inserviente li fece accomodare al tavolo della sala reale. Farinelli iniziò a illustrare il melodramma. Il re si reggeva il mento fra le mani e fissava la trama del tappeto. D’un tratto entrò l’inserviente col vassoio d’argento. Il re sobbalzò, gli occhi puntati sulla busta accanto alle tazze da tè, si levò di colpo, la poveretta perse l’equilibrio e il fragore dei cocci risuonò nella stanza; poi con uno scatto fulmineo si avventò sulla lettera e la strappò in mille pezzi. Matteo deglutì. Non poteva essere che lei, Elisabetta Farnese, la matrigna. Aveva ragione lo zio a lamentarsi della sua insopportabile invadenza. Lo voleva accanto la maledetta. Non gli darà tregua finché non vedrà la corona di Spagna sulla testa di suo figlio Carlo. Povero re.
 
Il pianoforte era magnifico. Sotto la cassa di cipresso splendevano alla luce di un raggio di sole, lunghe file di tasti d’ebano e avorio. Il re si sedette al suo fianco. La parrucca bianca fin sulle spalle, incorniciava il viso ovale e la fronte ampia; i polsini della giacca di velluto verde erano decorati con fili d’oro. Matteo si sforzò di non tradire la minima emozione ma i battiti divenivano frenetici.
«Puoi provarlo. Fammi sentire qualcosa» disse il pover’uomo con tono garbato.
Annuì e con gli occhi fissi sulla tastiera, eseguì il Minuetto in Sol minore di Bach, il pezzo che gli veniva meglio.
Giunto agli ultimi accordi sentí una mano sulla spalla.
«Devi diminuire la rapidità e tenere il busto più dritto. Ecco, così.» Ferdinando gli spinse indietro la spalla e con l’altra mano premette sulla schiena.
«Fatemi sentire voi ora» proruppe Matteo con entusiasmo.
Il re eseguì un altro brano di Bach a occhi chiusi. Le sue dita lunghe e affusolate volavano sulla tastiera.
 
10 agosto 1759
 
Matteo entrò in carrozza e si sedette accanto allo zio. Dovevano fare in fretta. Dio, speriamo che sia ancora vivo. Accidenti, a Parma lo zio poteva andarci da solo, non doveva accompagnarlo. Tanto avrebbe comunque trovato l’alloggio. Tolse dalla tasca il taccuino. C’era ancora la terzina appuntata dal re. Un brivido gli salì lungo la schiena. Gli accese le immagini e i fremiti del mese passato. Ferdinando che gli mostrava le note nel pentagramma; lui che sorrideva, incurante degli occhi d’un sovrano. E poi le sinfonie che vibravano sui polsi, fino a sfiorare le stelle. Neanche la nobildonna dall’abito turchino, braccetto allo zio, lo scorso mese, lo aveva saputo rinsavire come quelle lezioni. Matteo sgranò gli occhi. «Ditemi la verità, mi avete condotto dal Re per farlo riprendere a suonare, è così?»
Farinelli gli cinse la spalla. «Già, solo tu potevi aiutarlo. La morte di Barbara lo ha distrutto. Quando mi hai detto di Bach ho pensato che fosse davvero la volta buona. L’ho fatto anche per te, per migliorare.»
«Ma allora perché siamo partiti così sul più bello!?»
Lo zio scosse il capo. «Non immaginavo che si lasciasse andare in questo modo». Sospirò. «Devo dirti una cosa», mormorò tenendogli la mano.
«Non mi dite che avete rinunciato allo spettacolo al teatro ducale?»
«No, l’opera si farà. Ma a Parma andrò per sempre.»
«Fate sul serio? Come mai così all’improvviso?»
Lo zio incrociò le mani. «Matteo, l’aria al castello s’è fatta pesante. Ormai è Re Carlo di Napoli che comanda. Ci sarà tempo per le spiegazioni, ora pensiamo al re.»
 
Matteo osservava i cavalli e gli scorrevano nella mente i volti delle mezze carogne che ronzavano attorno al sovrano. Ricardo Wall, il primo ministro, col suo tono garbato, più volte l’aveva visto confabulare in giardino con quel verme di Tanucci, il fiduciario di Re Carlo. Ma anche il medico di corte Purcell non gli piaceva affatto. Danzava alle feste con Elisabetta. Strinse i pugni. Lo avranno imbottito di oppio e sangria quei maledetti, altro che musica! Di colpo spalancò gli occhi. Il boulevard del palazzo reale pullulava di gente. Il cocchiere si fermò. Vide dall’altra parte una dama robusta circondata da gigli, camelie e braccia alzate. «Elisabetta», mugugnò lo zio. «Quindi il Re è morto?» sussurrò Matteo con voce tremante. Farinelli abbassò gli occhi. Matteo sospirò. La musica era finita per il suo Maestro. Un velo di lacrime gli appannò la vista.
Entrò nella sala reale. Il feretro di Re Ferdinando era al centro, mani giunte, pianoforte di lato.
Il ministro Wall si avvicinò alla bara, aveva una ferita sulla mano. Matteo si morse un labbro, abbassò il capo e le palpebre. Sentì scuotere il braccio. L’inserviente in lacrime gli porse una busta.
Uscì e lesse la lettera.
 
Caro Matteo, non sono stato il Re che tutti avrebbero voluto. Per il mondo resterò l’inetto figlio di Filippo V, Ferdinando VI il pazzo. E sia così. Ho amato il sorriso di Barbara e volteggiato con la musica sino alle stelle, come dicevi tu. Non piangere. È stato bello conoscerti, ti lascio il mio pianoforte, che ti accompagni lungo il tuo cammino. Non smettere mai di sognare.