Interferenze

Cosa successe davvero sulla Luna da convincerci a non tornarci più? Ecco un’ipotesi formulata da Adriano Muzzi.

 
20 luglio 1969, 10:56 p.m. Luna: Mare della Tranquillità.
«Houston, abbiamo un problema» la voce di Armstrong gracchiò dall’altoparlante della sala controllo.
«Qui Houston. Che succede ragazzi?»
«Abbiamo una forte interferenza nella ricezione radio, una specie di martello pulsante» disse Aldrin.
«Noi sentiamo forte e chiaro, non dovrebbe esserci un guasto; provate a cambiare canale, mettete…» furono interrotti da un urlo: «Neil, vieni a vedere, mio Dio!»
Armstrong, a grandi balzi, si avvicinò al compagno che, con il braccio alzato, indicava qualcosa nel cielo lunare nero e gelido.
«Oh Santo Dio! Ma non è possibile!»
«Cosa sta succedendo? Buzz, Neil!?»
«Vi sentiamo ancora male, ma forse abbiamo scoperto la causa del problema alla nostra radio… c’è un satellite in orbita, o meglio, una specie di sonda: sta passando sopra di noi, è molto bassa!»
Nella sala controllo si scatenò un putiferio: cento persone cercavano di parlare e fare domande tutte insieme. Il capo missione zittì tutti con un poderoso assolo baritonale.
«Ragazzi, non abbiamo satelliti lassù, e nemmeno la Russia e la Cina dovrebbero avere qualcosa. Siete sicuri che sia artificiale?»
«Si è fermata sulle nostre teste per qualche secondo, ruotando su se stessa – disse Armstrong.»
«State attenti, ritornate subito al LEM! – ordinò il capo missione dalla Terra.»
Non fecero in tempo a eseguire il comando, che i due astronauti strinsero istintivamente le mani all’altezza delle orecchie: un suono stridulo, molto più forte di prima, risuonò nei loro caschi appannati. Urlarono all’unisono.
«Che succede?» chiesero ancora da Houston.
Neil e Buzz non risposero, di fronte a loro un’enorme montagna lunare si stava aprendo come le valve di una conchiglia, lasciando scoperto un parallelepipedo di metallo di dimensioni mastodontiche.
«Che cosa sta succedendo?» riprovarono a chiedere dalla Terra.
Armstrong fu il primo a riprendersi:
«Un’enorme macchina sta emergendo da una montagna. Sembra di acciaio, luccica, e ha delle aperture circolari. Si stanno aprendo anche quelle.»
«Neil, mi confermate che state vedendo un artefatto sul suolo lunare?»
«Non sento bene» rispose Armstrong, «proviamo a scattare delle foto con l’Hasselblad di Buzz.»
Mentre si apprestavano a sistemare il cavalletto della fotocamera, ci fu un improvviso lampo di luce che li accecò. Non sentirono esplosioni e non videro partire i raggi di energia dal manufatto, ma quando la cecità momentanea si affievolì, scorsero una sfera di fuoco che precipitava verso il suolo lunare schiantandosi a pochi chilometri di distanza. Il problema alla radio del loro casco era del tutto scomparso.
«Collins?» Chiese Armstrong con un filo di voce. «Michael, ci senti?»
Nessuna risposta.
«Terra? Temiamo che abbiano abbattuto il nostro modulo di comando!»
Dopo minuti, che sembrarono ore ai due astronauti, Houston rispose:
«Ragazzi, abbiamo controllato, non ci sono più segnali dal modulo, ci dispiace.»
“Ci dispiace” si ripeté mentalmente Neil; rivolse lo sguardo alle stelle, che come non mai gli parevano fredde e insensibili, degli aghi che arrivavano direttamente fin dentro le sue sinapsi.
«Povero Collins, merda!» Esclamò.
«E adesso?» Chiese Buzz, mettendo una mano sulla spalla del compagno.
«E adesso: “Noi siamo per gli dei quel che sono le mosche per un ragazzo capriccioso: ci uccidono per divertirsi…”»
«Shakespeare?»
«Possiamo ritornare al LEM» continuò Neil, ignorando la domanda, «ma senza modulo di comando… L’autonomia di ossigeno e acqua a nostra disposizione, circa 35 ore, non basta per attendere un eventuale missione di soccorso.»
«Nell’improbabile eventualità che sulla Terra riescano a organizzarne una…»
«Già» aggiunse Armstrong, chiudendo il discorso insieme a ogni loro speranza.
Si sedettero spalla a spalla su una piccola roccia a contemplare la bellezza della “mezza” Terra calante che gli si stagliava davanti.
«Neil, pensi si tratti di un avvertimento, una sorta di: ”statevene a casa vostra”?»
«Probabile, un sistema di difesa automatico installato chissà quando, e chissà da chi.»
«Mi chiedo perché non ci abbiano abbattuti prima di atterrare…» disse Aldrin.
«Abbiamo trentacinque ore per pensarci…» rispose Armstrong.
«Sarebbe ironico se nel frattempo questa razza si fosse estinta, ma la loro macchina continuasse a spararci addosso.»
«Gli dei burloni di Shakespeare.»
«Già…»
Chiusero il collegamento con Houston e rimasero in silenzio: nelle radio solo i loro respiri regolari, negli occhi il bianco accecante del suolo lunare e le stelle con una luce così vivida che faceva male allo stomaco.
 
Nei decenni successivi tutti i tentativi di mandare missioni con equipaggi umani sulla Luna ebbero lo stesso esito: i moduli orbitali furono abbattuti dall’artefatto alieno.
Si decise di sospendere il programma lunare a tempo indeterminato. Forse per sempre.
Nessuna interferenza.

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