
Regola numero uno per essere super eroi? Una grande forza mentale, come quella del protagonista di questo racconto di Adriano Muzzi.
Stato energia pile: verde, cinque tacche. Stato motore principale: verde. Tuta dell’invisibilità: indossata correttamente. Guanti: OK. Cappello: OK. GPS acceso e settato sull’obiettivo.
Sono pronto per la mia missione. Le ferite subite in battaglie precedenti mi costringono a strisciare con le stampelle fino alla super-macchina: le gambe ancora non mi rispondono; mi isso a fatica sul seggiolino.
Accensione!
Spengo la luce dell’hangar e vado verso il montacarichi. Le porte si aprono, all’interno c’è un tizio con un impermeabile sgualcito e una pipa spenta in bocca; appena si riaprono le grate mi passa quasi attraverso, non mi degna di uno sguardo, l’invisibilità funziona perfettamente, come al solito.
La strada è resa viscida dalla pioggia incessante, una nebulizzazione continua di sporcizia accumulata negli anni. Tutto appare incolore, di un grigio topo sbiadito. Sfreccio tra le persone che camminano sul marciapiedi, tutti con un inspiegabile fretta: non vedono l’ora di arrivare in posti di lavoro che odiano e che li annoiano, per poi riscappare esauriti verso case e familiari che li deprimono. Nessuno si accorge di me; bene, tutto procede secondo i programmi. Sul visore al mio polso visualizzo l’obiettivo, il GPS mi sta guidando per la via più breve, manca poco. Improvvisamente un ostacolo invalicabile mi si para davanti: la via indicata dal mio navigatore è impraticabile. Mi vedo costretto a fare marcia indietro; sto perdendo tempo, ma non posso fare altrimenti. Mi rimetto in strada sfiorando le auto suonanti che, non potendomi vedere, mi vengono incontro pericolosamente. Evito un frontale per pochi millimetri. Con un guizzo funambolico riconquisto il marciapiedi, che in questa zona è una groviera simile alla superficie lunare, ma io non sono un astronauta, sono solo un super eroe.
Finalmente vedo il mio “uomo”: divisa blu, berretto con visiera e automezzo arancione. Sta facendo manovra. E’ il momento. Metto a manetta il motore e mi fiondo sul bersaglio. Con un balzo acrobatico su un cordolo di gomma, entro in testacoda nel parcheggio. Mi piazzo davanti all’uomo in divisa alla guida del bus.
«Oggi devo salire per forza» gli dico.
Il tizio volta la testa verso di me e con aria stanca mi risponde:
«Ragazzì, oggi è come ieri, questo mezzo non ha lo scivolo per i disabili, non ci posso fare niente…»
«Aiutami tu!»
«Lo farei pure, ma non posso fermare il servizio; e poi ho l’ernia del disco, non gliela faccio. Abbi pazienza.»
Giro il mio sguardo verso i passeggeri dentro il mezzo, e come al solito nessuno mi vede: chi sta chattando sullo smartphone questioni di vita o di morte, chi ha lo sguardo vitreo, chi legge la pubblicità appiccicata sui vetri. Per loro sono ancora il supereroe invisibile.
Mi volto con la carrozzina e riprendo la strada verso casa.
Il mio nome è “Invisible Man”, e domani ci sarà un’altra difficile missione per cui combattere. Magari solo per farmi una doccia decente, o soltanto per andare a una mostra di fumetti.
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