
Angelica è un nome, una ragazza qualunque, ma per me è il mondo intero. Un mondo che dorme insieme a me.
Ricordo la nostra prima notte insieme. Mi lisciava i capelli lunghi. Le sue mani danzavano sul mio corpo. Io invece giocherellavo con i suoi ricci. Avremmo potuto consumarci quella notte, invece ci abbandonammo sul letto senza fare niente. Io che le carezzavo la schiena con la delicatezza delle cose perdute, navigavo nell’arcipelago dei suoi nei, delle sue efelidi. Angelica, è un mare in cui ero affogata innumerevoli volte.
Poi si rotola tra le coperte, mi guarda, vuole dirmi qualcosa.
“Dovresti riprendere a scrivere quel romanzo.” Mi fissa, gli occhi smorti. Un tempo erano verdi, ora sono un valzer di ombre scure.
“Mi manca giusto l’editing finale, la parte più rognosa.” Rispondo, poco convinta. Io smorta lo sono sempre stata.
“Andiamo al computer, ci lavoriamo insieme, no?”
“Va bene, amore.” Mi gratto il collo per il nervosismo, odio quando mi entra nel profondo passando per la scrittura.
“Il tuo problema è che metti sempre troppo.”
“lo so, devo imparare a tagliare.”
“Sì, sarebbe ora, non credi?”
E allora taglio. Cadono le metafore e le similitudini, snellisco la prosa, cancello interi paragrafi.
“Ma non vedi che manca un sacco di roba? Silvia, a me sembra che sei tanta, piena.” Non lo dice guardando lo schermo. Mi studia tutto il corpo.
“Hai trovato uno strano modo per dirmi che non ti vado bene?”
“Io ti amo così come sei, sto parlando del testo. Semplicemente troppe parole che appesantiscono il tutto.”
“Forse l’unica cosa pesante sono io.”
“Senti, se ci dobbiamo incazzare io vado a fare una passeggiata e torno quando ci siamo calmate, che dici?”
“Certo, fa pure, io rimango qui con il romanzo.”
Sola, io e questo corpo grande come una moltitudine di me. Potrei riempire tutta la stanza con ogni parte di me.
Mi butto nella scrittura. Incomincio a sfoltire frasi che non hanno nessun valore. Limo, cesello, sono un’artista e le mie mani sono gli strumenti del mestiere. Questo passaggio mi risulta inutilmente prolisso. Lo cancello. Faccio detonare un intero capitolo. Fanculo, a che serve costruire una trama quando puoi far esplodere le coordinate della storia. A che serve costruire un amore se poi viene abbattuto come un albero. A niente. A che serve prendersi cura di lei se tanto deve far sbocciare insicurezze in ogni dove. Mi specchio con lo schermo nero del telefono spento. Brutta, il volto nemmeno viene catturato interamente dal vetro del cellulare. Strabordo oltre. Non so nemmeno perché mi sono ridotta così. Angelica non riesce più a guardarmi come prima. Lo so. Chissà dove affondano le radici della fine di un amore.
Forse sono davvero troppa, sono qualcosa in eccesso. Io che un tempo ero uno stelo d’erba e ora sono foresta.
Tutte le storie hanno un principio, ogni racconto affonda nelle radici di qualcosa ancora più antico del tempo stesso. E allora io troverò il mio principio. Ora. Per Angelica. Perdutamente per lei.
Ora so cosa fare. Vado in cucina, torno al computer. Mi serviva qualcosa.
Il romanzo ha pochissime pagine ora. Non basta. Io sono troppo. Sono troppo me. Mi fisso la cellulite delle cosce. La mia storia fa schifo, anche io. Taglio, affetto, maciullo tutto quello che rimane. Il documento ha una riga. Cancello anche quella.
Pagina bianca, quel bianco che mi uccide.
Cancello il file, spengo il computer, rimango solo io. Non basta.
Taglio, affetto, maciullo.
Angelica torna a casa e urla. Si imbratta le scarpe di sangue.
“Ma porca puttana…”
Brancolo senza arti, senza brandelli di carne, amore mio. Amami. Sono tornata all’essenza. Io sono il nostro principio. Sono tornata quella di un tempo. Ho scavato fino a trovare le radici di ciò che ero.
“Mi trovi bella?”
Piange dagli occhi neri come ombre.
L’ultima cosa che vedo prima che le emorragie mi reclamino alla selva dei suicidi.
Sono uno stelo d’erba, lo giuro.