La mia sedia

 

Mia nonna giace a terra da un sacco di tempo. Sono sicuro che sia morta.

Questo pomeriggio si è dimenticata di accendere il condizionatore e ora fa un caldo insopportabile, ma non posso fare nulla. Non importa, presto morirò anch’io.

Il letto è appena cambiato, ma sto sudando parecchio, lo intuisco dalle gocce che mi cadono sugli occhi. Sono sicuro che nonna l’avrebbe cambiato di nuovo prima di sera. Non credo che lo farà più. Non ho realizzato subito, in realtà pensavo fosse svenuta: non è stata una botta forte, ma la sfortuna ha voluto che nonna cadesse proprio contro lo spigolo del mobile, sbattendo vicino alla tempia. Ormai non nutro speranze di vederla di nuovo in piedi, magari ferita, ma viva. Mi stava portando un bicchiere d’acqua e menta, la mia bevanda preferita, un toccasana con questo caldo. Ora il bicchiere è a terra, in mille pezzi.

È stata colpa mia? Forse sì.

L’ho già vista inciampare sulle ruote della sedia più di una volta, e non manco mai di rammentarle di non lasciarla in mezzo. Ho perso il conto di quante volte l’ho detto. Quando nonna mi sposta dal letto alla sedia, la voce metallica sintetizza all’istante ciò che i miei occhi guardano sul monitor. Nonna si spaventa, non credo che abbia mai fatto l’abitudine alla voce del computer. Poi sorride, si stringe nelle spalle e mi accarezza.

Ero sicuro che prima o poi si sarebbe fatta male. Sono stato un buon profeta: non avrei mai immaginato, però, che si facesse così tanto male.

La mia sedia. In realtà è una carrozzella elettronica molto sofisticata, ma a me piace chiamarla così. Ottantacinquemila euro, tecnologia ultramoderna, il massimo per quelli come me. Costruita in fibra di carbonio, ha un motore elettrico ultrasilenzioso a comando ottico ed è equipaggiata con un monitor a LED con sensori per riconoscere il movimento degli occhi; un computer completamente automatizzato governa il tutto, dotato di sintetizzatore vocale, collegamento a Internet Wi-Fi, smartphone, webcam, una piccola stampante e altri inutili accessori.

Quella dannata sedia. Penso a quanto il destino sia ironico.

Dal giorno dell’incidente ho sempre desiderato morire. Mesi di coma per poi svegliarmi su un letto, immobile, per sempre. A quattordici anni è stata dura, avevo tutta la vita davanti. Da quel giorno non c’è stato più nulla: papà, mamma, scuola, amici, calore, freddo, sapori o sensazioni.

Solo io e la nonna.

Qualcuno ci troverà prima o poi. Chissà, magari questa storia paradossale finirà anche sul giornale o in TV. Ma la gente riuscirà a capire? La mia sedia mi aveva ridato un po’ di quella speranza che avevo perso: la possibilità di spostarmi, parlare e, grazie a Internet, degli amici e una vita virtuale che era diventata la mia normalità. Adesso mi rendo conto che è stata solo un’illusione.

Ora la mia sedia è a un passo da me, se solo potessi scendere dal letto: una telefonata sintetizzata, una mail, la musica a tutto volume, qualsiasi cosa.

Dal mio letto, vedo un rivolo di sangue che scende lento sul pavimento. Povera nonnina. L’unica cosa che mi rimane da fare è piangere: per lei, per me, per tutto.

In fondo al cuore sono convinto che sia meglio così.