
Una distanza che supera quella fisica e spaziale in questo racconto di Eleonora Rossetti, seconda classificata nella CENTESIMA Edizione di Minuti Contati.
Lo schermo era ancora nero. Ray aspettava nel silenzio asettico del suo dormitorio personale.
Avanti…
Un’ora prima gli era giunto il messaggio che Jane era entrata in travaglio. Avrebbero attivato una diretta SpaceSkype per permettergli di assistere al parto. Per essere lì con lei.
Era una bugia, lo sapeva. Lui non ci sarebbe mai stato davvero.
Spesso lo leggeva negli occhi di Jane, era l’ombra costante dei suoi videomessaggi. Quel disappunto sordo che lui non fosse mai presente, nel vero senso della parola. Separati dal tempo oltre che dallo spazio. Le loro vite erano sospese su un abisso di dodici minuti di lag, che li divideva più della distanza fisica. Come se abitassero epoche diverse.
Dodici lunghissimi minuti.
Jane, però, cercava sempre di nasconderne il peso. Taceva e sgranava i pixel del volto con il suo bel sorriso. Così come gli aveva taciuto la gravidanza, almeno al principio. Non voleva dargli preoccupazioni all’alba della missione spaziale – così si era giustificata – né rovinare il suo sogno di posare per primo il piede su Marte. Ray non aveva avuto neanche il privilegio dell’annuncio in diretta, quella vera. Le sue lacrime di gioia, a quella notizia, si erano raffreddate nella latenza del segnale di risposta.
Il lag s’ingoiava anche i sentimenti.
Lo schermo s’illuminò.
Ray gettò un avido sguardo sull’immagine di Jane attorniata dagli infermieri e dall’ostetrica. Le urla del travaglio riempirono l’ambiente. D’istinto, attivò il microfono.
«Jane! Sono qui, amore mio, sono qui con te!»
Nessuno si girò al suono della sua voce. Quello era un altro presente. La dannazione del lag. Una diretta dal passato.
Lo sapeva, ma lo ignorò.
«Jane, ti amo» sussurrò, fissando gli sforzi di sua moglie che seguiva le istruzioni dell’ostetrica. «Ti amo. Sai che sono lì con te. Sempre per te.»
Lo ripeté ossessivamente sfiorando lo schermo in una carezza, la commozione a inaridirgli la voce, finché la testolina di suo figlio emerse nell’eco di un ultimo grido di dolore. Ray si lasciò scappare un singhiozzo d’esultanza, finché la telecamera non inquadrò gli occhi di Jane che fissavano l’obiettivo… e si spegnevano.
Lui si raggelò.
«Amore…»
I segnali vitali sui monitor crollarono. Immobile sul lettino, Jane scomparve dietro le sagome dei medici affannati.
Jane! No! NO!
Urlò, impotente. Nella concitazione, qualcuno urtò il dispositivo SpaceSkype, che traballò e cadde sul pavimento. La visuale si confuse per qualche minuto straziante, poi d’improvviso il silenzio.
«Basta così» s’udì appena, dopodiché tutto divenne nero.
Ray era rimasto con la fronte contro lo schermo. Solo dopo qualche secondo, spense il microfono, crollò in ginocchio e scoppiò in lacrime.
«Jane! Sono qui, amore mio, sono qui con te!…»
Dalla colonia di Marte, il messaggio era in viaggio verso la Terra, parole gonfie d’amore e di speranza. Come se Jane fosse ancora viva.
Ancora per altri dodici brevissimi minuti.