L’altra parte del vetro

Questione di punti di vista, ma del resto la Storia viene scritta dai vincitori. Settimo classificato nella Walter Lazzarin Edition, un racconto di Manuel Piredda.

 
L’esemplare era separato dai ricercatori da una spessa lastra di vetro antisfondamento, uno strato di cristallo che segnava il confine tra due mondi: quello logico, ordinato e pulito della società civile e quello selvaggio, sporco e caotico del vivaio in cui era rinchiusa la creatura.
 
Dal giorno in cui le forze di cattura e ricognizione avevano trovato la “cosa” nel cuore della foresta pluviale mitteleuropea, tutte le nozioni pregresse e i paradigmi della scienza conosciuta si erano sbriciolati di fronte alle sue incredibili capacità.
 
Nonostante la piccola creatura fosse per molti versi simile a un singolo normale, era ricoperta di uno strano materiale elastico in grado di ripararsi rapidamente una volta danneggiato, simili abilità rigenerative erano presenti anche nella sua struttura interna: lo scheletro della creatura, pur fragile, riparava ogni frattura nel giro di appena due o tre settimane.
 
Gli scienziati, eccitati, si scambiavano silenziosi messaggi telepatici discutendo la natura della cosa:
 
«Che sia frutto della cosiddetta evoluzione? Potrebbe essere il futuro della nostra specie.»
«Sarebbe un futuro piuttosto triste» intervenne il ricercatore capo «non è capace di comunicare, per quanto si ripari in fretta resta troppo debole per essere un soldato, è un peso morto. E poi lo sappiamo tutti che l’evoluzione è un mito, il tempo genera solo la ruggine.»
 
Nonostante lo avesse appena chiamato peso morto sapeva benissimo che la “cosa” era un prodigio, ma avevano rischiato di perderla tante volte, soprattutto nel primo periodo, come la volta in cui avevano cercato di ricaricargli le pile con delle brevi scosse elettriche di prova; col tempo e lo studio avevano scoperto che la creatura poteva sopravvivere con il solo ausilio di acqua e frutta, non quella fermentata da cui si estrae l’etanolo per le macchine anziane. Semplice frutta fresca non trattata, un vero mistero.
 
Il ricercatore capo andò davanti al vivaio e cercò lo sguardo dell’esemplare.
Erano passati appena sessant’anni dal giorno della cattura, eppure la cosa aveva attraversato una serie di cambiamenti indecifrabili, dall’aumento delle dimensioni corporee al mutamento del colore della lunga pelliccia che gli ricopriva testa e viso, che era passata rapidamente da marrone a bianca. Probabilmente un meccanismo mimetico, secondo i ricercatori.
Il mostro, che era seduto su una roccia e sembrava limitarsi a contemplare i confini del suo piccolo mondo, si alzò in piedi e camminò con andatura stanca e incerta fino al vetro, senza mai distogliere lo sguardo da quello del suo carceriere.
 
Il ricercatore allungo il braccio, così simile a quello dall’altra parte della barriera eppure così diverso: un giunto per la spalla, uno per il gomito e uno per il polso, seguiti da cinque appendici mobili estese.
L’ultimo umano, al di là del vetro, seguì l’esempio, allungando il suo debole braccio rugoso verso il robot che lo teneva prigioniero da una vita, carne e metallo erano separati solo da uno strato di cristallo.