L’amico immaginario

Osservava Sara muoversi come una libellula per la soffitta. Sistemava i vecchi scatoloni con tanta foga, quasi lottasse contro ciò che non andava nella famiglia: una madre demente, un padre assente, una casa che andava a pezzi. Ma almeno, lei non era stata messa da parte.
Lei non era stata dimenticata.

 
«Oh, guarda, la bambola che avevi fatto da piccola!» esclamò zia Evelina, seduta sul letto al fianco di sua madre.
«Questa?» La teneva appesa per un capello. «Ecco perché mi sembrava familiare. Era in soffitta» rispose Sara.
La osservò in cerca di indizi per la memoria: lana per capelli, rossi come i suoi, imbottitura marcia che fuoriusciva dalla bocca sorridente, piccoli occhi neri.
«Da bambina ne eri così gelosa, vero Anna?» Guardò la degente con sguardo speranzoso. «Niente, tua madre oggi è assente.»
«Non fa niente, ci sono abituata.» Si sedette anche lei sul letto.
La zia sospirò.
«Sai, però di tanto in tanto chiede una cosa, sempre la stessa.»
«E cosa chiede?»
«Se è il tuo compleanno.»
Sara sorrise.
«È domani, mamma!» Le strinse la mano, vuota come lo sguardo.
 
La sera, a cena, Sara stava per sedersi a tavola, quando si accorse che era già occupata dalla bambola. La prese fra le mani come una vecchia fotografia.
«Quindi ci ero affezionata, eh?»
«Non te ne separavi mai.»
«Allora com’è finita là sopra?»
La zia aprì la bocca come per parlare, ma si fermò. «Non ricordo proprio.»
Mangiavano nel silenzio della grande casa, quando un’ombra sfiorò la tavola. A Sara cadde la forchetta. Sua madre era in piedi, con gli occhi spiritati.
«Mamma, c-cosa…»
Fissava la bambola e la indicava, in un gesto abbozzato della mano nodosa. Un grido rauco le risalì la gola, seguito da una sola parola. «Sammy…»
«Fai sparire quella cosa, per l’amor del cielo!» urlò zia Evelina.
Sara gettò la bambola dalla finestra, che volò silenziosa fra le erbacce.
 
«Adesso sta riposando» disse piano la zia uscendo dalla stanza.
«Che le è preso?» chiese Sara in lacrime, ancora bianca in volto.
La zia si accasciò sulla sedia, la schiena curva.
«Solo una volta la vidi così sconvolta» Una ad una le lacrime presero a cadere sulla gonna a fiori. «Quando perse tuo fratello.»
«Che cosa dici? Io sono figlia unica» Sara arretrò.
«Adesso sì. Ma…»
«Vuole dire che avevo un gemello?»
Anni di sensazione senza nome le abitarono d’un tratto l’anima, finché i frammenti ricostruirono un’immagine: il bambino ai piedi del letto, che tutte le notti l’andava a trovare. L’amico immaginario, per cui aveva fatto la bambola…
«Com’è morto?»
La zia si portò il viso fra le mani.
«Era il giorno del vostro primo compleanno» raccontò, come fosse una favola.
«Chissà come, avevate gattonato fino al cesto della lana e… nessuno se n’era accorto. Vi stavate strozzando. Tua madre… ha dovuto scegliere chi salvare per primo.»
Sara si portò d’istinto la mano sul collo.
«Da allora non si è più ripresa» guardò la porta chiusa. «Volevamo solo dimenticare. Poi hai usato quella stessa lana rossa per la bambola… la chiamasti Sammy, come lui. Allora tua madre perse l’ultimo filo di ragione».
Sara corse a recuperare la bambola in giardino e si buttò sul letto al piano di sopra, sopraffatta. La strinse finché non esaurì tutte le lacrime e scivolò in un sonno senza sogni.
 
La guardava dormire. Era diventata grande e bella, lei. L’unica che non lo aveva dimenticato… almeno all’inizio. Poi lo aveva tradito, come tutti gli altri. Abbandonato per tanti anni in una soffitta polverosa! Ma ora le cose sarebbero tornate a posto. Gliel’aveva promesso, al secondo compleanno. Il solo regalo che avrebbe mai scartato.
Le carezzò i capelli color sangue con le mani di pezza, in attesa dell’ultimo rintocco della mezzanotte.
«Tanti auguri, sorellina.»

 
Un grido svegliò Sara di soprassalto. Corse giù per le scale ancora assonnata, le gambe pesanti, in bocca un pessimo sapore, ma qualcosa andò male e ruzzolò malamente. Il mondo sembrava diventato soffice. Poi qualcuno la prese in braccio, stordita.
 
«Buongiorno zia.»
«Tesoro, meno male che sei arrivata. Ti senti un po’ megl…» La zia si fermò e la fissò con un’espressione angosciata.
«Sara, sei tu? Sembri diversa.»
«Certo che sono io, chi altri potrei essere?»
 
Sara cercò di guardare in alto, da dove proveniva quella voce. La SUA voce.
Non riusciva a muoversi. La stanza le pareva così grande… e perché sua zia parlava con lei, ma guardava sopra di lei?
Quando lo sguardo cadde sullo specchio, si vide. Mani di pezza. Capelli di lana.
Era in braccio a qualcuno identico a lei. Quasi identico, non fosse stato per quella luce malvagia negli occhi.
«ZIA! SONO QUI!» provò a urlare, ma tutto quello che usciva dalla sua bocca era un vomito di ovatta muffita.

 
«Zietta, tu ti preoccupi troppo. D’ora in poi penserò io a ogni cosa. Tutto riandrà al suo posto.» Si avvicinò con un’andatura innaturale alla zia, che arretrava terrorizzata verso la finestra.
«Te lo prometto.»

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