L’assurda colpa di esistere

 

La vita è preziosa anche quando fiorisce dalla distruzione, rinnegarla vuol dire rinunciare alla speranza e divenire maceria irrecuperabile. Un racconto di Jacqueline Nieder.

 
Le urla che mandi sono come quelle del nulla quando è diventato materia. Immagina lo strappo del buio, l’agonia di quello squarcio che ha buttato fuori la Creazione.
Sei sdraiata su un letto, al caldo, il ginecologo ti ha controllata per la settima volta – sì ho contato – ora dice che va tutto bene e ogni cosa sta seguendo il suo ordine naturale, che sei dilatata. L’infermiera ti danza intorno – sì, credo che tu le piaccia in un altro modo –, hai delle lenzuola addosso, lenzuola che sono pulite, siamo in Italia, qui si sopravvive meglio, qui non senti scoppiare il colpo di un carro armato di prima mattina, qui non fanno irruzione negli ospedali e uccidono gli uccisi, sei al sicuro. Sei al sicuro mentre ti senti come Dio quando ha creato il mondo.
Eleonora. Le hai dato un nome di questa terra. Ma tua figlia sarà figlia di questa terra, amore mio? E noi che siamo? Di che cosa siamo figlie, di chi sei figlia?
Ecco, ora non riesco a guardarti, perdonami ti prego se la mia mano fugge la tua, se scotti come quando il gelo è troppo freddo. Tua madre non riesce a guardarti.
Non volevo guardarti neanche la prima volta, non te l’ho detto mai. Sei nata tre anni dopo l’inizio della guerra, nel ’93 e non riuscirò mai a descriverti cosa furono per la Croazia, per Vukovar quegli anni. C’erano più carri armati che anime. O forse mi sbaglio. Se fosse stato così, ne sarebbe bastata una manciata di macchine della morte, perché ormai le anime, anche nei vivi, non ne erano rimaste.
A Vukovar avevano gettato delle bombe con la stessa leggerezza con cui da bambina facevi piovere della terra sbriciolata sui formicai, per vedere impazzire quelle povere bestiole. E ti sgridavo e ti odiavo e mi facevi paura. Sì, è vero, a volte ti ho odiata e ho avuto paura del sangue che ti scorreva nelle vene.
C’erano come i buchi dei tuoi formicai, centinaia di buchi di mitragliatrice su ogni muro della città. Le erbacce avevano cominciato a crescere ai lati delle strade, dove il cemento aveva ceduto sotto la prepotenza dei cingolati. Si erano coperte di detriti, di mattoni rossi, pezzi di cose, rottami. Qualcuno, uno di quegli eroi senza volto, aveva rubato alcune lamiere dal cadavere di un carro armato e ci aveva costruito una croce che aveva piantato a cinque o sei metri sul lato della strada vicino a casa mia. C’era l’acquedotto, avresti dovuto vederlo, sventrato, ti ricordava cosa stava succedendo anche quando alzavi gli occhi per cercare un po’ di pulito. Chissà se è rimasta traccia di quella desolazione, non torno in Croazia da più di quindici anni.
Damir, mio marito, lo hanno ucciso nell’agosto del ’92. Era andato a cercare da mangiare. A volte si spingeva fin nelle campagne sperando di trovare qualcosa nelle sterpaglie dei campi abbandonati. Ho mangiato anche dell’erba medica una volta. Non mangiavamo da due giorni e Damir ne ha portato a casa un fascio. Quando l’ho visto, ho pianto. Credevo che saremmo morti di fame. Quella volta era per strada e si è avvicinato a un cane randagio, forse per vedere se era abbastanza sano da poterlo mangiare. È passato un soldato e gli ha sparato alla schiena. La pallottola gli è uscita dall’anca e ha colpito il cane. Li ho trovati così. Due figli bastardi che Dio non ha riconosciuto.
Alle figlie bastarde, invece, Dio faceva fare una fine diversa. I soldati, i vicini, quelli che fino al giorno prima salutavi e che ora stavano dall’altra parte, se potevano, ti sporcavano l’anima. Quando ho scoperto di essere incinta del serbo che mi ha violentata, ho cercato di perderti. Mi sono presa a pugni la pancia, ho pensato persino di aprirmi il ventre con un pezzo di vetro. Ma non te ne sei andata, per fortuna, non te ne sei andata.
Prima che mi crescesse troppo la pancia, sono scappata in un paese vicino. Avevo camminato per quattro giorni fin quando non avevo trovato una casa dove si erano nascoste una decina di donne che vivevano con quattro uomini tra fratelli, cognati e mariti. Alcune di loro erano incinte come me, alcune erano impazzite, alcune avevano smesso di parlare. Ricordo due ragazze in particolare, una di quattordici anni che perse il bambino al secondo mese, l’altra, di trenta, lo partorì e lo abbandonò su un mucchio di macerie in mezzo alla strada. Credo sperasse che i suoi violentatori vedessero in quel bambino la sua vendetta e il suo odio. Ma fu un gesto che la spense del tutto.
Tu, invece, sei venuta d’inverno. Dovevano esserci venti gradi sotto zero. La neve era alta un metro e rendeva tutto più sopportabile, nascondeva le cose. Sei venuta di notte, quando dovevamo chiudere tutte le luci per evitare che gli aerei bombardassero le case. Ti ho maledetto. Tremavo dal freddo e dalla fame. Due uomini mi hanno portata nella cantina e mi hanno lasciata vicina alla caldaia. Hanno detto che così, forse, non sarei morta e forse non saresti morta neanche tu. Ricordo il sudiciume, ricordo i ratti che correvano lungo i muri e avevo paura che cominciassero a mordermi e non riuscissi a difendermi. Sono rimasta sola per poco, perché alcune donne sono venute ad aiutarmi. Mi hanno coperta e hanno fatto pressione sul mio stomaco per aiutarti a uscire. Urlavo come il giorno in cui hai iniziato a esistere. Sei venuta in fretta. Ho sperato che fossi nata morta, non avrei avuto il coraggio di lasciarti su un cumulo di neve. Invece hai cominciato a piangere e io con te. Ed è stato in quel momento, credo, nella spinta che è partita dalla schiena e ha proteso tutti i muscoli in avanti, dalle spalle alle braccia, alle mani, fin alla punta di ogni singolo dito, che è cambiato tutto. E come ti ho avuta, ti ho stretta, nascosta dentro il seno, sotto la coperta, vicina alla caldaia. E ti alitavo in fronte, per non farti congelare e ti baciavo come se fossi un miracolo e ti ringraziavo, sì continuavo a ringraziarti di essere venuta da me. E ti chiedo anche ora, qui, grazia e perdono.
Finalmente, dopo l’ultima spinta, sentiamo il vagito di Eleonora. Le tue dita attorcigliate sulle lenzuola si sono rilassante, hai gli occhi vigili e i capelli bagnati dal sudore.
Così ora ti posso guardare mentre, con le ultime forze che ti sono rimaste dopo un travaglio di tredici ore, la prendi e la baci e la stringi e ringrazi Dio e me. Me. Ringrazi me, guardandomi con Eleonora negli occhi. E capisco solo ora, dopo tanti anni, che tu il perdono me lo avevi già dato quel giorno, in quella cantina, in quella Croazia, respirando, mentre ti alitavo sul viso per non farti congelare.