
Ulula bene chi ulula per ultimo. Un racconto di Fernando Nappo finalista alla Di Giulio Edition della Quarta Era.
I primi raggi di sole colpiscono l’uomo in volto, risvegliandolo. Strabuzza gli occhi, si guarda attorno. Alla vista delle sbarre comincia ad agitarsi, ansima, come se vestigia della bestia che è stata nella notte appena trascorsa alberghino ancora nel suo corpo. Poi si accorge di me: «Dove sono?» mi chiede, le mani serrate sulle sbarre che l’imprigionano, lo sguardo che vaga intorno, in cerca di una via di fuga.
«Misure per garantire la mia sicurezza, come ben sai» rispondo.
L’uomo mi guarda e digrigna i denti. «Liberami, e subito.»
Sbava un po’, quando ringhia il suo comando.
«Fra poco» rispondo. «Quando sarà il momento.»
L’uomo dà una vigorosa scrollata alla sbarre, forse sperando in qualche residuo della forza belluina della notte precedente: «Chi sei? Come hai fatto a catturarmi?»
Lo fisso negli occhi. «Non avrai risposte» dico. «Non ne meriti, nessuno di voi ne merita.»
Mi volto e mi dirigo verso il tavolo.
Il respiro dell’uomo aumenta d’intensità, lo sento agitarsi.
Prendo la pastiglia e il bicchiere d’acqua e torno verso la gabbia.
«Che cosa mi vuoi dare?» dice l’uomo, indicando con un cenno la pastiglia che ho in mano. «Io non prendo quella roba!»
Ignoro le sue rimostranze. Appoggio la pastiglia sulla punta della lingua, bevo un sorso d’acqua e la inghiotto.
L’uomo mi guarda in tralice, incuriosito.
Rimetto il bicchiere sul tavolo.
«Sei strano» mi dice «non capisco…»
Sento un formicolio alla base del capo. Sono le prime avvisaglie. Dalla tasca dei pantaloni sfilo una chiave e la mostro al mio prigioniero. «Allontanati» dico.
L’uomo si sposta sul fondo della gabbia, non mi toglie gli occhi di dosso.
Apro le sbarre e gli faccio segno di uscire. «Tranquillo, non nascondo alcuna arma.»
Infilo la mano sinistra in tasca: il prurito sta diventando insopportabile.
L’uomo si precipita verso il lato opposto della cantina, sale i tre gradini e cerca di aprire la porta. Si volta verso di me, lo sguardo un po’ meno strafottente.
«Che cosa…»
M’ingobbisco un poco, stare ritto diventa più difficoltoso.
«L’effetto della licantropina è davvero considerevole» dico. Parlare si fa più difficile. «Non serve la luna piena, no… e non cancella i ricordi.»
«Che cosa vuoi fare» dice l’uomo. «Lasciami andare… ti prego…»
«L’ho sintetizzata io stesso, dal corpo del mostro che ha ucciso mia moglie…» ormai le mie parole sono suoni quasi inarticolati «… e mia figlia» concludo in un rantolo.
Sento la bestia farsi strada dentro di me, e i peli spingere per trapassare l’epidermide.
L’uomo si appoggia alla parete, ansima pesantemente.
Ora ne percepisco anche l’odore, l’odore della paura.
E balzo.
I commenti sono chiusi.