Livorno porto

I gabbiani mi svegliano gracchiando.
Il loro canto è il mare: li sentivo ogni mattina quando ero ragazzo, poi mi accompagnavano tutto il giorno, a scuola, mentre giocavo in strada con gli amici. Dopo, lavorando sulle navi, li ho ritrovati in ogni porto.
Sposto la coperta e guardo fuori dal finestrino: il tempo è abbastanza dolce per tenerlo aperto anche alla notte. Mi godo l’odore inconfondibile di salsedine e diesel. Stanotte ho parcheggiato sul molo, fra il cantiere navale e lo Scoglio della Regina: l’alba tinge l’orizzonte di arancione, Livorno dietro di me dorme ancora. Mi sento bene, leggero. Decido di fare colazione con l’ultima scatoletta di tonno rimasta.
Esco dalla macchina, mi lavo veloce nel bagno pubblico che puzza di piscia e mi siedo su uno scoglio. In automatico, guardo l’orizzonte in cerca di qualche porta container: una nave vuol dire lavoro, partire di nuovo, lasciare la città che mi è sempre andata stretta. Ma da giorni non se ne vede neanche una: dicono che il porto sia in crisi, o forse è il maledetto virus. Devo continuare a provare, l’unico modo è riprendere il mare. Ormai ho perso tutto, la casa di cui non potevo più pagare l’affitto e anche quella stronza di Giulia. Mi ha lasciato da un giorno all’altro, dicendo che sono un fallito.
L’ottimismo di poco fa si scioglie fra le onde: getto la lattina vuota in mare, un gesto nervoso.
 
Fa caldo mentre sono fermo in fila. La mascherina non riesce a coprire l’odore degli altri: mi fa schifo perché sono sicuro di puzzare come loro.
Ho sempre detestato le file, ma mi sforzo di rimanere fermo, calmo, per poter mangiare. Se non ci fosse la Caritas non so che fine avrei fatto, dopo quasi un anno di disoccupazione.
«Amico. Ehi amico! Un aiuto per favore.»
Una voce dietro di me: non mi giro, mi sono bastati il tono straniero, basso e queste poche parole: solo loro possono chiamarti amico. Un moccioso comincia a piangere, poi un secondo. Merda.
«Per favore amico. Puoi stare con miei figli un attimo? Mia moglie là, arrivo subito.»
Non posso fare finta di niente, mi giro. Un nero più o meno della mia età, barba lunga, vestiti sporchi di terza mano. Ha un maschio e una femmina che piangono. Non so un cazzo di bambini, faccio anche fatica a dargli un’età.
«Loro bravi, non preoccupare. Tieni posto e piccoli, arrivo subito.»
Si allontana: attraversa la strada di corsa rischiando di farsi investire. Dall’altra parte c’è una ragazza velata con un neonato legato alla schiena. Qualcosa non va, zoppica. Lui la prende sotto braccio, l’aiuta ad attraversare piano, con gentilezza. Per fortuna, appena la madre arriva, i due le si attaccano alla gonna, smettono di piangere. Allora la guardo in faccia.
Alina. Le assomiglia.
 
Nei tre mesi passati dall’ultima sosta in Senegal il suo ricordo non mi aveva mai abbandonato. Appena terminate le manovre d’ormeggio l’avevo chiamata subito, poi l’avevo fatta salire sulla nave di nascosto, il porto non era adatto per stare in pace con una ragazza.
Ci eravamo appartati fra due container: la luce della luna che si rifletteva sul mare, sui capelli neri di Alina. Il suo profumo di muschio e miele mi eccitava mentre facevamo l’amore.
All’improvviso ha rovinato tutto: mi ha detto che era incinta, di portarla via con lei in Italia.
L’ho insultata, dicendole che non potevo, che era una bugiarda, che non era vero.
Ha pianto, mi ha chiamato bastardo, poi mi ha supplicato, dicendo che mi amava.
Alina mi ha lasciato un vuoto nel ventre. L’ho chiuso col tempo, a fatica.
 
Sono sul molo, nello stesso punto di stamattina. La lattina di tonno è ancora lì: intrappolata fra gli scogli, portata su e giù dalle onde, rimbalza sulle rocce.
In mensa il padre della famiglia africana ha insistito per sedersi al mio tavolo: nonostante tutto li ho trovati simpatici, abbiamo parlato a lungo. Mi hanno raccontato il loro viaggio nel deserto, la traversata fino a Lampedusa durante una tempesta. Nessuno di loro sapeva nuotare.
Dovevano andare in Germania: il fratello di lui lavora a Düsseldorf, li aspettava da mesi. Gli ho fatto fare una telefonata: piangevano felici, mentre parlavano in quella lingua aspra.
Mentre partivano, ho salutato i due bambini più grandi che guardavano dal lunotto posteriore della mia macchina: era l’ultima cosa di valore rimasta, la mia casa negli ultimi mesi, ma all’improvviso ho deciso di dargliela. Non mi hanno neanche detto i loro nomi.
Il loro piccolo doveva avere l’età del bambino concepito con Alina. Il figlio che non ho mai visto.
Ripenso all’agenzia interinale dove giorni prima ho visto un annuncio per braccianti agricoli, un’azienda vinicola di Bolgheri. Non ho mai lasciato il mare, ma ormai è tempo di cambiare.
Mi alzo per andarmene, noto di nuovo la lattina: in quel momento un’onda più alta delle altre la raccoglie, le fa superare la barriera degli scogli.
Parte in viaggio nel grande mare.