L’ultimo attacco

Resistere al primo attacco non fu difficile. Fu solo fastidioso.
Cercai di pulire il terreno dai rifiuti che avevo trovato sversati, forse durante la notte da qualche balordo. Buste di plastica, bottiglie, lattine e cartacce varie formavano un mucchio informe e incolore che strideva con il verde acceso delle piantine di spinaci e di bieta.
Presi la pala, alcuni sacchi neri di plastica e cominciai a riempirli di tutta la robaccia che sembrava profanare quel luogo come una piaga purulenta può fare sulla pelle morbida e bianca di un bambino.
Ripulito il terreno, trascinai i sacchi ormai colmi verso i cassonetti dell’immondizia poco distanti e rimasi a contemplare il panorama.
La striscia di terra che coltivo, da quando sono in pensione, è stretta tra i palazzoni di cemento, costruiti negli ultimi anni, e la ferrovia su cui sfrecciano veloci i treni che vanno da nord a sud del paese e viceversa. La considero, questa terra, l’ultimo baluardo di un passato che resiste, nonostante tutto, agli attacchi di un presente troppo in fretta proteso verso il futuro. Come i treni che mi capita spesso di rimanere a fissare. Osservo rapito gli scompartimenti illuminati e a volte riesco a vedere al loro interno figure confuse di uomini e donne. Allora fantastico sulle loro vite e mi chiedo se sentano la solitudine come me.
 
La seconda volta fu quando arrivarono quei tre. Erano ragazzini annoiati, ai quali probabilmente i genitori non avevano fatto mancare nulla finora. Oppure si sentivano soli come chi si sente perso, abbandonato, pur sapendo che una guida ce l’ha ma non fa il suo dovere. Molto diversa dalla mia, di solitudine.
Arrivarono che era sera. Io stavo per lasciar tutto e tornarmene a casa. Quando il sole tramonta dietro le case e la luce va via non ha molto senso continuare a lavorare la terra. E, alla mia età, una giornata intera di lavoro si fa sentire forte nelle ossa che reclamano riposo.
Non li vidi subito, sentii solo le loro risa e ciò mi mise in allarme. Indugiai nella baracca ancora un po’, affacciato alla finestrella che dava sul campo.
Quando riuscii a scorgere le sagome era quasi buio.
«Facciamo uno scherzetto al vecchio?» disse il primo.
«Sì, dai, strappiamogli un po’ di piante e poi pisciamogli sugli attrezzi da lavoro.»
«Facciamo in fretta, però, che devo tornare a casa» disse un terzo, l’unico con un po’ di umanità, forse celata solo per non far brutta figura davanti ai compagni.
Uscii all’improvviso dalla baracca e alla luce fioca della luna piena credo di essere sembrato loro un fantasma.
«Via!» gridai. «O vi faccio pentire di essere nati e cresciuti!»
Fuggirono, come solo i codardi sanno fare. Ragazzacci, pensai, però quella notte decisi di passarla lì, nella mia baracca, a vegliare il mio pezzetto di terra, il solo in grado di riempirmi la vita con i suoi frutti puntuali a ogni stagione. Io che di frutti ne avevo avuti ma che, per un motivo o per un altro, non erano più con me.
Trascorsi la notte a osservare le poche stelle visibili nel cielo cittadino e ripensai ai miei figli. Me li immaginavo dentro le stanze illuminate di quei palazzoni alle mie spalle, oppure nei vagoni di qualche treno diretto chissà dove.
 
Il terzo attacco fu di dicembre, faceva freddo e quello era il periodo dei carciofi. Ma anche delle zucche. E ne raccoglievo tante perché la mia terra è fertile. Le zolle scure trasudano vita ogni volta che le vango e quando annaffio i piccoli virgulti appena spuntati, mi sento come il prete che battezza piccole creature di grandi speranze.
Era mattina presto. Il buio a breve avrebbe lasciato il posto a una fresca aurora e avevo tutto il giorno davanti per dedicarmi al raccolto e alla sistemazione delle nuove piante.
Avevo caricato l’Ape con i sacchi in cui avrei messo le verdure, la vanga nuova in sostituzione di quella vecchia, oramai consumata, e la zappa il cui manico avevo fatto riparare da un amico falegname.
Io non sono razzista, ho anche origini ebree e so cosa vuol dire essere cacciati o perseguitati. Però la prepotenza non mi è mai piaciuta.
Così quando quella mattina mi accorsi che un gruppetto di Rom stava occupando la mia baracca e il mio campo, non ci vidi più. Quella era la mia terra, accidenti, me l’aveva regalata mio padre che a sua volta l’aveva avuta da mio nonno e nessuno mi avrebbe cacciato da lì.
Compresi subito di non poter cavarmela con un semplice [i]Via![/i] come avevo fatto con i ragazzini della volta precedente. Rimisi quindi in moto l’Ape e tornai a casa. Lì, in camera da letto, in un baule in cui conservo i cimeli di famiglia, c’era un vecchio fucile e dei proiettili. Pregai la Madonna che fosse ancora funzionante e con quello, nascosto in un sacco, tornai al campo.
Il sole era oramai alto ma il freddo si faceva sentire. Fermai l’Ape poco distante per non dare avvisaglie del mio arrivo. Scesi e, a piedi, il fucile in spalla, mi diressi verso i Rom i quali, nel frattempo, avevano anche iniziato a raccogliere i carciofi.
Li vidi agitarsi appena si accorsero di me e cominciarono ad apostrofarmi in una lingua a me sconosciuta. Avevo paura, ero solo, loro erano parecchi, il mio fucile chissà se avrebbe funzionato e non ero neanche sicuro di avere il coraggio di usarlo.
«Dovete andarvene da qui!» urlai. «Questa è la mia terra!»
Non so se compresero le mie parole, però vidi due di loro avvicinarsi, come se avessero annusato la mia paura, e l’espressione non presagiva nulla di buono. Resistetti. Feci finta di non avere alcun timore e impugnai il fucile. In realtà cominciavo a vedermi scorrere tutta l’esistenza davanti, come fosse l’ultimo istante di vita.
Fu allora che lui arrivò. Era un gheppio, elegante e grosso come non ne avevo mai veduti, un’apertura alare che per alcuni istanti oscurò il sole al pari un’eclissi. Planò sopra le nostre teste e si avventò con foga verso il gruppetto dei nomadi continuando a volteggiare minaccioso sopra di loro e lanciando un verso stridulo.
Era il verso di un uccello, eppure mi sembrò di udire il richiamo di tutti coloro che avevano difeso quella terra prima di me. Una voce ancestrale proveniente dal passato ma anche da profondo della mia anima.
I Rom indietreggiarono, impauriti. Le donne gridarono e si nascosero dietro un paio di alberi lungo la ferrovia. Gli uomini parlottarono un pochino tra loro, poi li vidi prendere fagotti e carabattole e allontanarsi in fretta.
Avevano rovinato le piantine di verza, quelle ancora da raccogliere, calpestato alcune sementi appena germogliate, però avevo vinto. In più, ora avevo un amico, quel gheppio che sparì non appena gli intrusi se ne furono andati.
Avrei voluto ringraziarlo, dargli qualcosa da mangiare, carezzarlo e dimostrargli gratitudine, ma tutto ciò non fu possibile perché non lo vidi più per parecchio tempo.
 
Ricomparve durante l’ultimo assalto.
Era arrivata la ruspa. Sapevo che prima o poi sarebbe accaduto, avevo ricevuto una raccomandata in cui mi intimavano l’esproprio del terreno a favore del Comune per una non ben definita opera pubblica.
Avevo protestato, ero andato anche in Municipio per dimostrare che la mia proprietà era in regola, ma non c’era stato niente da fare.
Così quella mattina, mentre zappettavo e innaffiavo i fagiolini appena piantati, il rumore sordo della ruspa mi avvisò che forse la fine stava arrivando. Quando il motore si spense, la grossa scavatrice era a pochi metri dalla mia baracca. Alzava e abbassava la benna come un elefante muove la proboscide in tono di sfida e io ero lì, impietrito e incredulo.
Sarebbero bastati un altro paio di metri e i legni del casotto sarebbero spariti, travolti e triturati dalla ruspa.
Il verso del gheppio, però, mi svegliò dal torpore. Era tornato e questa volta si era appollaiato sulla mia spalla. Sembrava attendere qualcosa, forse un cenno.
L’uomo sulla ruspa gridò: «Vecchio, devi toglierti. Facci lavorare!»
Io allora risposi: «Questa è la mia terra, non me ne vado. Dovrete passare sul mio cadavere!»
L’uomo scese lentamente dalla ruspa e con un saltello mise i piedi per terra. Mi accorsi che l’uomo era più piccolo di quello che sembrava a cavalcioni del suo veicolo, mentre i muscoli guizzavano aggressivi sotto la maglietta sporca e bagnata di sudore.
«Levati o dobbiamo chiamare la polizia!»
«Io non mi muovo di qua!» replicai.
Quello non insistette, continuò a masticare una gomma americana e risalì sul suo bolide.
Come spinto da non so quale forza, quasi senza rendermene conto, carezzai il rapace fermo sulla mia spalla e dissi: «Andate via!»
L’animale allora si lanciò dritto verso il volto dell’autista, innalzando poi il suo volo al di sopra della ruspa. L’uomo imprecò per lo spavento e ingranò la marcia per tornare indietro. Lo vidi girare il veicolo e sparire dietro i palazzoni di cemento inseguito dalle ampie ali del gheppio.
 
Sono mesi che nessuno si fa più vedere da queste parti per reclamare la mia terra, ma mi aspetto che da un momento all’altro possano tornare e togliermela per sempre.
Continuo a coltivare le verdure su questo campo che era di mio padre, il quale a sua volta lo aveva avuto da mio nonno.
Di tanto in tanto un grosso gheppio viene a posarsi davanti la mia baracca, sta un po’ lì, mentre io sorseggio tè freddo in estate o fumo Marlboro d’inverno.
Oggi, per esempio, ho preso una mela dalla bisaccia per merenda. Con un coltellino svizzero l’ho tagliata in quattro parti. Per ognuna, con precisione geometrica, ho inciso via un solco per toglierne il torsolo. Ho mangiato i croccanti quarti di mela, uno dopo l’altro, assaporandone il succo asprigno e guardando l’orizzonte, oltre la ferrovia, dove si staglia, appena accennato nella foschia, il contorno del centro città.
Lui era lì, davanti a me. Mi osservava immobile.
Sembrava volermi dire qualcosa. Forse che gli va stretto questo scampolo di verde tra i palazzoni e la ferrovia. Si merita di più, ne sono convinto. Però, finché abbiamo questo terreno, possiamo sopravvivere. Possiamo resistere, così penso. E sono sicuro che lo pensi anche lui.