
Un sogno che è la vita o una vita che è più vite in una serie di sogni? Finalista nella Terza Edizione della Quinta Era con Francesco Troccoli nelle vesti di guest star, un racconto di Zebratigrata.
Ero fermo davanti alle strisce pedonali, in attesa che la luce verde mi autorizzasse ad attraversare, e avevo un diavolo per capello. Concentrai le mie energie mentali nel tentativo di far esplodere, a distanza, la testa di Milly, che per l’ennesima volta si era presa il merito di un lavoro che avevo fatto io. Se ne approfittava, e si godeva i complimenti, gli aumenti, i bonus. Quelli che avrebbero dovuto essere miei. Ecco, pensavo alle mie sfortune e agli abusi altrui quando alzai gli occhi verso il semaforo. E non lo vidi. Sentivo ancora le auto e la gente intorno a me parlava normalmente: non sembravano essersi accorti di nulla. Provai ad attraversare la strada: mentre degli sconosciuti mi fermavano e mi davano dell’incosciente, mi resi conto di essere diventato cieco.
Mi svegliai, in preda al terrore. Tirai un sospiro di sollievo. Non mi sarei mai più lamentato di stronzate come gli abusi di Milly, la prossima volta l’avrei lasciata nel suo brodo e me ne sarei andato da qualche parte, a sfruttare al meglio gli splendidi e funzionanti occhi di cui la natura mi ha dotato. Anzi, perché non farlo il prima possibile? Quella sera stessa, dopo cena, uscii di casa e cercai un night. Entrai. Era una serata a tema: fanciulle in succinti abiti infantili si scambiavano pacche sul sedere sollevando nuvole di borotalco, e dimostravano quanto fossero sottovalutati i possibili usi di un giocattolo in legno. Trenini, aeroplanini e animaletti in betulla naturale si imbarcavano in viaggi che ciascuno dei presenti avrebbe sognato per il resto della vita.
Mi svegliai, pieno di ansia e disgusto. Avevo sognato di essere uno di quegli esseri schifosi. In un night club. Non ci volevo nemmeno pensare. E quelle tizie vestite da bambine, con i giocattoli di legno… ci sono perversioni accettabili, ma esiste un confine che non può essere superato. Mi guardai i rami, le foglie. Tutto bene, ero ancora io. Sentivo la linfa scorrere dentro di me, non dell’orribile sangue rosso. Intorno, nel parco, nessuno era stato abbattuto e trasformato in un oggetto di piacere per quei parassiti del pianeta. Non mi sarei mai più lasciato prendere dalla disperazione: in fondo le cose avrebbero potuto andare molto peggio. L’importante è essere vivi, pazientare, avere radici salde: tra qualche decennio loro si sarebbero estinti: io, invece, sarei rimasto lì per sempre.
Mi svegliai, sudato, agitato, prima ancora di pensare spiccai il volo. Volai, volai veloce, volai lontano, non volevo smettere di battere le ali. Non volevo più toccare il suolo, per timore che il sogno diventasse realtà, per paura di dover scegliere un punto, un solo punto del mondo, e di non potermi spostare mai più. Mai più. Non avrei mai più indugiato nell’acqua del porto, litigandomi con gli altri i pezzi di merendina che i bambini lanciavano dal molo. Non avrei mai più mangiato spazzatura per pigrizia, ingrassando come un pollo in batteria. No, d’ora in poi, le ali, le avrei usate davvero.
Mi svegliai.