
Aren si appoggiò al bastone e attese, le dita serrate sul legno ruvido. Non mancava molto, ormai.
Il buio avvolgeva tutto, l’illuminazione pubblica rimaneva spenta da anni e, a parte le stelle e la luce delle lune, solo la piattaforma di teletrasporto emetteva qualche bagliore.
Una macchia luminosa si disegnò sulla volta celeste, la piattaforma si accese e proiettò in cielo una colonna di luce.
Era il momento.
Aren si coprì il viso schiaffeggiato dalla sabbia sollevata dal vento, fino a quando le forti luci si spensero.
Sulla struttura era comparso un uomo. Il viso illuminato dalle lune le era familiare: era lui, non c’erano dubbi.
Aren si fece avanti, ma non riuscì dirgli niente.
Anche l’altro era taciturno. Alzò una mano in un gesto incerto, come volesse toccarla, ma lei si ritrasse d’istinto.
Lui si strinse nelle spalle e sospirò. «Sei invecchiata.» La voce rotta tremava dall’emozione. «Ma ti riconosco.»
Le labbra di Aren si mossero appena. «Io… non so cosa dire.»
«Nemmeno io… solo che sono tornato e non vado più via. Promesso.»
Aren non rispose. Si frugò nelle tasche, tirò fuori il cronometro e glielo porse. «Mi hai chiesto di portartelo, ricordi?»
Lui strinse le labbra e annuì. «Sì. Ecco il mio.»
Quello di Aren indicava settant’anni, dieci mesi e otto giorni; l’altro cinque anni, un mese e due giorni.
Gliel’aveva infilato in mano prima di partire, tienilo da conto, e portamelo subito appena torno, che come prima cosa voglio verificare le leggi di Einstein. Così le aveva detto. Verificare le leggi di Einstein, non riabbracciarla, ma fare un inutile esperimento scientifico.
Lui sospirò. «Cinque anni per me, settanta per te. Non oso nemmeno immaginare quello che provi, dopo così tanto tempo.»
Lei annuì senza dire nulla.
Il giorno della partenza era salito sulla piattaforma senza voltarsi indietro, uno stacco netto è meglio per tutti, inutile perdere tempo in saluti. Così le aveva detto, spezzandole il cuore. Per anni aveva sperato che potesse cambiare idea e tornare da lei, ma poi, una coltre di freddo le aveva avvolto il cuore per soffocare quel dolore, fino al momento in cui aveva semplicemente nascosto il cronometro in un cassetto e si era dimenticata di lui.
Ora era tornato, e la fissava con le lacrime agli occhi. «Credo sia normale che tu mi veda come un estraneo, spero tu possa ricordare quel poco tempo che abbiamo passato insieme e, che potrai perdonarmi.» Singhiozzò. «Mi sei mancata. Non hai idea di quanto mi sia… pentito di essere partito e di averti lasciata.» Abbassò lo sguardo. «Non avrei dovuto. Ero uno stupido ragazzo. Ma sono cambiato.»
Aren chiuse gli occhi e strinse i denti. Un sentimento che aveva cercato tutta la vita di reprimere sgomitava per rientrare di prepotenza nel suo cuore.
L’aveva aspettato, aveva pensato a quel momento per gran parte della vita ma, alla fine, adesso era vecchia e suo padre un marinaio che aveva abbandonato sua figlia per imbarcarsi nella prima astronave.
Scosse la testa e sospirò. «Dài, andiamo a casa, papà.»
(Copertina generata con chatgpt)