
Una notte di molti anni fa feci una partita a scacchi col mio doppelgänger.
Non era la prima volta che accadeva e l’esito era scontato. Il mio gemello, malvagio o meno che fosse, era in tutto identico a me. Insieme eravamo nati e insieme eravamo diventati grandi, sempre in competizione. Nessuno dei due era superiore all’altro. Non poteva vincere, sarebbe stata un’ennesima patta.
Dopo un’ora che giocavamo, invece, mi accorsi di essere in vantaggio. Quando lui fu costretto ad arroccare lo svantaggio fu evidente.
«Com’è possibile?», mi sfuggì.
Non parlavamo mai, lui non era in grado di farlo. I suoi erano solo sussurri, emessi a tarda notte quando giacevo nel mio letto, spesso incomprensibili. Ma talvolta terribilmente chiari.
Mi accorsi che era agitato e allora glielo chiesi: «Cosa succede se vinco io?».
Qualcosa di terribile, immaginai, giacché il timore lo spinse a impegnarsi ancora di più.
In quel dualismo io prosperavo, non volevo che cambiasse. Lo stesso timore colpì anche me. «Possiamo piantare qui», proposi. «Non ho più voglia di giocare, consideriamola patta».
Mi sentì, perché scosse il capo.
Avevo bisogno di lui. Della mia parte malvagia. C’erano azioni che mai avrei osato compiere da solo. Azioni sgradevoli, eppure necessarie. Era lui che mi spronava, mi dava forza.
Eravamo facce della stessa medaglia. Sole e luna, luce e ombra. Realtà e inconscio. Entrambi necessari.
Giocai male, fornendogli occasioni per riscattarsi, ma lui non ne approfittò. Forse non se ne accorse neppure, concentrato com’era.
Mentre ancora m’ingegnavo di trovare una soluzione, lui comprese di aver perso. Non fece alcuna mossa, lasciò solo cadere il suo re.
Mi spaventai. «Non fare così, ci sono ancora tante mosse…». Ma nessuna in grado di portarlo alla vittoria.
Chiusi gli occhi. «E adesso?».
Mai niente ci aveva separato. Eravamo un solo essere. Nulla distingueva le nostre identiche personalità.
Lui sorrise. Uno strano sorriso, quasi amaro. Poi si alzò e andò via. Rimasi solo in quella polverosa soffitta.
Ci volle un po’ prima di capire di aver sbagliato. E nulla fu come prima.
Sono sopravvissuto, direte, giacché vi sto parlando. In un certo senso sì, sono passato di livello. È questo che succede quando si vince. Ora sono io a infestare lui. Io a consigliarlo, a spronarlo, a contenerlo quando esagera. Perché ho dimostrato di essere migliore.
O forse no, è stato lui a scegliere. A decidere che la mia vita meritasse di essere vissuta più di quella che era capitata a lui. Così se l’è presa. Forse sono io ad aver perso.
Temo proprio che non lo scoprirò mai, se quella partita era truccata.
E se ora queste parole giungono a voi, al sicuro nei vostri letti. Se riuscite a comprendere i miei sussurri, sappiate che esiste qualcosa peggiore della morte: vivere a metà.
E io a quella vita oggi sono condannato.