
La guerra, la resistenza, il coraggio, l’assurdità, la morte. Semifinalista nella Centesima Edizione di Minuti Contati, un racconto di Andrea Partiti.
Di giorno ci acquattiamo tra i cespugli, in buche scavate per rendere più confortevole l’attesa, con i serpenti arrotolati tra le gambe in cerca di calore.
I soldati evitano con cura i boschetti di arbusti, dove le jeep arrancano. Poca visibilità e poca velocità.
A nord la macchia non è sicura: i soldati appiccano il fuoco e lo usano per stanare la resistenza. Ma qui a sud l’aria è secca e ventosa, qualsiasi incendio si sparge a velocità incontrollabile e pericolosa anche per loro.
Quando fa buio, strisciamo fuori dai nascondigli e lanciamo i nostri richiami. Ci riuniamo in luoghi concordati, valli crepate e radure brulle difficili da trovare. Da qui parte la nostra disperata guerra.
Conosciamo questa terra meglio degli invasori che la controllano e usiamo questo vantaggio fino in fondo, per aggirarli, per distruggere tende e provviste, per rubare armi.
Alcuni di noi, a turno, corrono ai villaggi. Si avvicinano dalle campagne buie perché nessuno possa accusare il villaggio di collaborare con la resistenza. Qualcuno si separa rapido per riabbracciare una madre, una moglie, dei figli. Raccolgono tutto il cibo che i vecchi e le donne rimaste riescono a offrire.
Radunati al centro della radura che ci ospita, ci guardiamo in faccia. C’è disperazione e sconforto negli occhi altrui. Non serve discuterne: siamo allo stremo, senza cibo, le armi perse o inutili, senza munizioni.
«Dobbiamo far arrivare un messaggio al Colonnello,» propone uno tra noi, accolto da uno spento mormorio.
«È dietro le linee nemiche, non possiamo raggiungerlo.»
Mi faccio avanti, perché il fuoco mi illumini: «Posso farcela. Sono silenzioso, veloce e conosco le vie degli animali. Posso arrivare al Colonnello.»
Nessuno si oppone, non ci sono altri volontari. Vengono uno a uno e mi abbracciano senza una parola.
Per giorni faccio la vita dello scarafaggio, della lucertola, della faina. Dormo nascosto in tane abbandonate, mi arrampico sugli alberi al rumore di passi, approfitto di ogni varco per superare sbarramenti e ostacoli.
Più di una volta qualcuno mi vede, mi urla un avvertimento e spara in aria per spaventarmi. O forse mi spara contro, non fa differenza: sono già lontano.
Striscio tra le linee nemiche, così vicino ai soldati di pattuglia da sentire l’odore agre del tabacco che masticano.
Il terzo giorno supero la brulla zona presidiata: di nuovo cespugli e natura ad aiutarmi. Non mi è difficile individuare il villaggio che cerco, dove il Colonnello ha la sua base.
Nella piazza polverosa venditori e donne discutono tra loro. Un gruppo di uomini dritti e autoritari occupa l’ombra dell’unico albero.
Il Colonnello è tra loro, il più alto e impettito. Lo riconosco facilmente. Mi vede avvicinarmi e mi accoglie con un sorriso.
«Sei sporco! Vuoi un po’ di cioccolato, ragazzino?» mi chiede, pescando una barretta luccicante dalla tasca.
Stringo più forte la granata che nascondo in tasca.
Mi faccio coraggio.
Estraggo la spoletta, rilascio la leva, accetto il cioccolato e per un istante lo assaporo.