
Un vero uomo ammazza col coltello, me l’hai insegnato tu, Arkuun, ricordi? Anche dei bambini deficienti sono capaci di usare un AK-47: punti, premi il grilletto, il nemico cade; questione di secondi!
Quanti ne ho ammazzati così, Arkuun? Era bello come giocare ai videogiochi al campo di addestramento, a quelle macchinette giapponesi col buco per i soldi sfondato, così potevamo infilarci sempre la stessa moneta da cento scellini senza mai smettere.
Eri il mio eroe, il mio capitano, Arkuun. Oh capitano, mio capitano! C’era scritto così in quel libro di poesie che ci facevi leggere. Ama il tuo capitano come tuo padre, il tuo compagno d’armi è tuo fratello, quelli di al-Shabab invece sono animali che si scopano le sorelle e inculano le loro stesse madri. Noi siamo quelli che liberano la Somalia da quelle luride scimmie, lo facciamo per noi e per te, capitano Arkuun!
Un giorno ero per le strade di Mogadiscio col mio Kalashnikov in braccio, mi avevi dato la medicina che rende invincibili, quella che non fa sentire la fatica. Sento ancora l’odore della polvere della strada che mi sale nel naso mentre striscio a nascondermi sotto quell’auto scassata, con l’olio che mi gocciola in testa e il cuore a mille che scoppia nei timpani all’unisono col rumore degli spari.
E chi ti vedo la sotto? Uno dell’al-Shabab con gli occhi iniettati di sangue e i denti che splendono al buio. Non c’è spazio per abbracciare il fucile e farlo fuori. E allora che si fa?
Ricordo quello che tu mi hai insegnato, Arkuun, che ci vogliono le palle per ammazzare col coltello. Col fucile basta un secondo, si preme e tac, il nemico è morto. Con la lama no: bisogna guardare l’altro negli occhi, sentire il suo terrore, il suo respiro affannoso sulla pelle. Quando la lama gli entra dentro l’altro non sente dolore, sul momento prova solo incredulità; solo dopo arriva l’agonia cieca mista al panico. Certo, si può morire in un attimo, le vene del collo sono fatte apposta, ma non è comunque come una pallottola nel cervello: morire accoltellati è doloroso, lento, sporco, ed è giusto così, perché la morte del nemico non deve essere bella. Questo mi hai insegnato, Arkuun, capitano mio capitano; ma sul momento, sotto a quella macchina, non penso a tutto questo, ma estraggo il pugnale dallo stivale e mollo un fendente a caso… e, colpo di culo! Lo becco negli occhi.
Urla, il bastardo, ma non si ritrae: chissà, di certo avrà preso anche lui la medicina magica, quella che non fa sentire il dolore, allora per finirlo devo affondargli la lama nella faccia ancora. E ancora.
Muore tra le mie braccia, le sue labbra, senza voce, chiamano sua madre. E allora mi ricordo che anche io ho una madre, e che quel ragazzo che ho appena ammazzato avrà sì e no dodici anni, come me.
E allora mi metto a piangere. E tremo tutto. E alla fine della battaglia mi trovi là sotto. Pensavo volessi punirmi, invece mi hai dato una bella medaglia, magnanimo come un vero padre.
Da quel giorno non ho sentito più niente se non le parole non dette di quel ragazzo, che chiamava sua madre mentre lo ammazzavo col mio coltello, diventando un vero uomo. Chissà come si chiamava, sua madre; la mia si chiamava Fatima, lo sapevi, Arkuun? Chissà dov’è adesso.
Un giorno, in una battaglia qualsiasi, cado ferito, il nostro battaglione scappa e tu con lui: io vengo raccolto da un convoglio delle Nazioni Unite, quei biondi francesi dai caschi blu, piccoli e inutili come i Puffi. Una volta guarito mi hanno portato qui, a Parigi.
Adesso mi danno un sussidio per rifugiati politici che arrotondo vendendo rose in cellophane per un pugno di franchi. Mi viene da ridere al pensiero di quegli sguardi seccati, di quella gente che mi tratta come un mucchio di merda, ma se sapessero quello che ho fatto…
Gli occhi squarciati di quel ragazzo mi tornano spesso in sogno, così come l’odore del suo respiro misto alla sabbia della strada di Mogadiscio, e all’olio di quella macchina scassata che mi colava in testa.
Arkuun, quando ti ho visto camminare qui, a Parigi, con quella bella figa sottobraccio, ho capito che per fare sparire quegli occhi tagliati in due ti dovevo parlare.
E allora ascoltami: siamo miliardi di stronzi in questo pianetino di merda che orbita attorno a una stella grossa come un grano di senape, in una galassia in mezzo alle altre. Ma in ogni galassia, in ogni pianeta che orbita attorno alla sua stella di merda, ci sono miliardi di occhi tagliati in due che mi fissano nel buio.
Perché, mi chiedono, perché ci hai fatto questo? Per diventare uomo? Per la Somalia?
Arkuun, tu mi hai messo il fucile in mano, e tu mi hai insegnato a usare il coltello. Ero un bambino che doveva ancora imparare tutto, quando mi hai strappato da mia madre. Ora guarda l’uomo che sono, l’uomo che ammazza col suo coltello: quando ti entrerà negli occhi non ti farà male subito, ma poi urlerai come il maiale che sei e, forse, quel ragazzino la smetterà di chiamare sua madre.