
Aveva otto anni quando notò per la prima volta il suo doppio.
Pensò a uno specchio, vedendosi nel corridoio in penombra. Ma non c’erano specchi nel corridoio.
Il doppio compariva quando lui era solo, sempre attento a non avvicinarsi troppo.
Ne parlò alla madre, spaventato. La madre la liquidò come una fantasia da bambino, lo abbracciò e gli disse che sarebbe sparito presto.
Aveva dieci anni quando il suo doppio entrò nella camera da letto e prese a osservarlo. Urlò, sua madre accorse e lo cercarono ovunque, ma si era dileguato. Tornò appena i passi della madre arrivarono in fondo alle scale, lontani.
Ne parlò ai suoi amici il giorno successivo. Gli dissero che non li avrebbe spaventati così facilmente, doveva inventare una storia migliore.
Aveva dodici anni quando trovò il suo doppio seduto a tavola al suo posto. Sorrideva. Aspettò in piedi finché i genitori non gli chiesero perché stesse lì fermo anziché sedersi a mangiare.
Il doppio si fece da parte e si mise in un angolo della cucina. Non lo lasciò più solo da quel momento.
Ne parlò a suo padre, da uomo a uomo per essere preso sul serio. Suo padre scosse la testa, deluso da un figlio così impressionabile.
Aveva quattordici anni quando per sbaglio urtò il suo doppio. Era a scuola, nel corridoio. Perse l’equilibrio, cadde a terra e i presenti risero di lui. Anche il suo doppio rise.
Ne parlò al professore di italiano, che lo ascoltò con attenzione, ma era chiaro che non credeva a una parola.
Aveva sedici anni quando il suo doppio lo colpì per la prima volta. Una botta sulla nuca mentre prendeva appunti durante una lezione. Picchiò sul banco con la faccia e corse fuori dall’aula tenendo all’insù il naso sanguinante.
Ne parlò allo psicologo della scuola, che lo ascoltò con attenzione e gli spiegò che era suo dovere segnalare gli episodi di bullismo.
Aveva diciotto anni quando il suo doppio lo mandò all’ospedale. Un occhio nero, tre costole incrinate e lesioni alla milza.
La polizia gli chiese chi l’aveva aggredito, ma rifiutò di rispondere e guardò nel vuoto finché non rinunciarono. Il suo doppio, seduto al bordo del letto, osservava con curiosità gli agenti.
Ne parlò al suo medico, che sparì dalla stanza in un baleno e chiese un consulto psichiatrico.
Aveva vent’anni quando lo trovarono morto nella sua stanza d’ospedale.
Vennero tutti al funerale: i genitori, gli amici, i professori, i medici che l’avevano curato.
La bara era aperta durante la funzione. Il trucco nascondeva le ferite degli ultimi anni, guarite, rimarginate o ancora fresche.
Chiusero la bara solo quando, finita la cerimonia, venne il momento della processione funebre.
Solo allora medici, professori, amici, genitori, notarono il doppio seduto sulla cassa, che sorrideva beffardo come aveva sorriso per dodici anni protetto dallo scetticismo di tutti loro.
Solo allora capirono di aver sbagliato.