Ombre

Cinquemilacentoquindici. Julian sta intagliando la croce numero cinquemilacentoquindici, sulla parete scura della sua stanza, con un coltellino appuntito. Il pezzo di pavimento sottostante è imbrattato di polvere, ma lui non si preoccupa mai di pulire. Va a lavare le mani e sciacqua il coltello con acqua bollente, poi si guarda nello specchio. Quei cinquemilacentoquindici segni gli hanno regalato una profonda ruga sulla fronte, sembra una lama che gli taglia la faccia, un sorriso spento e un paio di occhi che non sanno più riempirsi di luce.
È solo, è sempre stato solo in quella casa nascosta tra gli alberi di una fitta foresta. Va, come ogni giorno, a controllare il canale, a pochi metri da casa sua, per assicurarsi che non ci siano topi a sporcare le acque. Cammina tra le foglie e gli alberi dalla forte corteccia e dai forti rami, scalzo. Si fida di quella terra, la sua terra.
Poi vede un’ombra accovacciata vicino al canale, una sagoma scura che sembra guardare l’acqua. Si avvicina spaventato, non c’è mai stato nessuno in quel posto. Cerca di non fare rumore, ma, nonostante i suoi passi silenziosi, la sagoma si accorge di lui e fugge, senza neanche voltarsi. Julian si affaccia sul canale, non è riuscito a seguirla nemmeno con gli occhi. Nell’acqua galleggia qualcosa.
Dei capelli neri come la pece si aprono sulla superficie, come tante viscide alghe incastrate tra loro. Un ampio vestito rosso si gonfia d’acqua, lasciando intravedere due gambe esili e biancastre, come le braccia, spalancate in un abbraccio senza tempo.
Julian si passa una mano tra i riccioli brizzolati, che poi tornano a posto. Poi la mette sulla bocca e tiene gli occhi sbarrati. Tira su le maniche della camicia di lino bianca e prende tra le braccia il corpo, il viso della bambina è violaceo e gonfio, le sue labbra livide sigillate. Lui corre verso casa sua, forse sperando di salvarla. Inciampa in un pezzo di vetro e si ferisce un piede, ma non si ferma, racchiude tutto il dolore in una smorfia.
Spalanca la porta con un calcio e poggia il corpo sul grande tavolo in legno della cucina, incurante del sangue sul pavimento e della ferita. Comincia a premere con le mani sul petto della bambina, uno, due e tre colpi e poi pausa, poi ancora tre colpi e pausa. Preme, respirando forte su quel corpo che non lascia speranza. Il cuore non batte più e non c’è niente da fare. Non è riuscito a salvarla e si è sentito quasi in dovere. Scava una buca sotto l’albero di fronte la sua finestra, avvolge la bimba in un lenzuolo e ce la mette dentro, ricoprendola di terra e fiori. Fa un maldestro segno della croce, guarda il cumulo di terra per qualche secondo. Poi va a ripulire il sangue e a fasciarsi la ferita, beve un sorso d’acqua.
Fuori dalla finestra passa ancora quell’ombra, lui corre ma non vede niente di nuovo.
«Ho dovuto farlo» una voce risuona.
«Chi sei?» chiede con voce tremante. Un brivido gli percorre la schiena.
«Naìluj, sono straniero. Sono disperso.»
Corruga la fronte, la sua ruga si fa più evidente. «Fatti vedere.»
«Non mi ha permesso di essere quello che volevo, mi ha sempre ostacolato.» Quella voce continua a rimbombare nella sua testa.
«Ma di che parli?» Julian si guarda intorno,
«Ho dovuto farlo anche se mi amava e io amavo lei. Si è dimenata e ha urlato tanto, però alla fine è morta.»
«L’hai uccisa tu?» gli occhi di Julian si fanno infuocati.
Il sangue nelle sue vene pulsa, lui lo sente davvero pulsare, il cuore accelera.
«Non ha mai voluto sostenermi, la mia dipendenza l’ha sempre turbata e mi ha ostacolato per anni. Non basta ricoprirla con la terra e coi fiori, non ti aiuterà a farla sparire e lo sai.»
«C-cosa? Io ho provato a salvarla!» urla e gli si gonfia una vena, sul collo.
«Soffocarla è stato difficile.»
«Smettila, smettila.» Si tappa le orecchie.
«Ho sentito il suo respiro affievolirsi, mi ha supplicato con un filo di voce, prima di morire.»
«Basta!» Julian urla ancora, più forte di prima.
Poi tutto comincia a tremare. Vede una crepa sul muro che si apre davanti ai suoi occhi, scappa fuori. I muri crollano, la parete piena di croci per prima. Si allontana camminando all’indietro, incredulo. Vede quei pezzi sgretolarsi e gli ritorna in mente il viso della bambina, così simile a quello di sua madre, stessi lunghi capelli scuri, stesse ciglia lunghe, stesso taglio degli occhi orientale, un neo vicino la bocca. Cinquanta passi lo dividono da quell’enorme nuvola di fumo. Tutto quanto si dissolve, la voce, la casa, gli alberi, il canale, il mucchio di terra, la ferita, il dolore. Poi si volta e vede solo nero, la testa comincia a girargli, chiude gli occhi.
Quando li riapre è da un’altra parte.
Le pareti intorno a lui sono tutte bianche, è seduto su una poltrona in cuoio, di fronte a lui un uomo col camice bianco e un cartellino appeso al collo. Un dottore.
«Coraggio, che dicevi? Gli uomini ragno hanno preso te e tu hai preso tua madre…» dice il dottore, tenendo un foglio tra le mani.
Julian sta zitto, è stordito. Si morde un labbro mentre tamburella le dita sul ginocchio.
«Non le piaceva che bevevi troppo, vero Julian? Non le piaceva e tu eri stanco e hai fatto quella cosa bruttissima. Eh, Julian?»
Poi nell’angolo rivede quell’ombra.
«Tu qui non devi stare. Scappa via!» sente bisbigliare.
Balza dalla sedia e si avvicina alla porta, strizzando gli occhi e tenendo un pugno stretto al petto, ma il dottore è più veloce di lui e gli infila un ago nel braccio, che lo addormenta.
Si risveglia in un letto bianco, che puzza di medicinali, con una mano poggiata sulla sua. Mette a fuoco il viso, riconosce due occhi familiari, scuri come i suoi. Sua sorella lo guarda e tira un sospiro di sollievo.
«Il medico ha detto che hai rifiutato le medicine, negli ultimi due giorni» gli dice sottovoce.
Julian incrocia il suo sguardo, vorrebbe dirgli che è una persona orribile e si merita quello che sta avendo, ma quello che fa è soltanto un mezzo rimprovero da sorella maggiore.
«Mi odi, mi odiano tutti, vero?»
«Nessuno ti odia.»
Le immagini gli trafiggono la testa, come chiodi arrugginiti, sempre le stesse e sempre più forte. Non ha tregua dal passato, forse non gliel’ha neanche mai chiesta una tregua, forse le vuole rivedere tutte quelle scene, per tutta la vita, per sentirsi meno in colpa.
«Sono passati cinquemilacentoquindici giorni, da quando l’ho uccisa» dice con un nodo fermo nella gola.
Gli occhi di sua sorella diventano rossi e lucidi.
«Lo so, adesso riposa.»
Julian sospira forte e, prima di chiudere le palpebre, vede il suo nome al contrario sul braccialetto che tiene al polso.
Naìluj.