
La Morte, qualunque sia la scommessa che si vince con essa, pretende sempre un tributo. Un racconto di Roberto Bommarito.
«Morirai, papà?» mi domanda Ella, gli occhi annacquati come se qualcuno le avesse ficcato l’anima nella lavatrice.
«Non se vinco» le dico.
La Morte sorride, un ghigno del cazzo invariabile anche mentre le bombe al napalm ci piovono addosso più insistenti della pioggia di novembre.
«Vedo» sbotto io. Stringo forte le carte quasi avessi paura che mi slittino via dalle mani inumidite di sudore.
«Vedi?» dice la Morte, il tono strafottente illuminato di sbieco dalla luce fiocca di una candela, l’unica rimasta.
Mia figlia mi tira la manica.
«Lasciami giocare, piccola» le faccio, lanciando un’occhiata al sacco che la Morte si è portata dietro, grande abbastanza per contenere una testa. «Fra poco finisce tutto.»
«Va bene» dice la morte. «Showdown.»
Sfoggia un full.
Il rombo delle esplosioni si fa sempre più vicino. Fra poco le pareti diventeranno incandescenti. Le fiamme risucchieranno l’ossigeno. I pochi che si salveranno, l’avranno fatto per miracolo.
Oppure perché hanno vinto una stupida partita a carte con la Morte.
«Morirai, papà?» domanda ancora Ella.
Io metto giù le carte.
Poker d’assi.
«No» le dico, giusto un attimo prima che la Morte le mozzi il collo con la falce.
Raccoglie la testa di mia figlia dal pavimento; il sangue è dappertutto. Infilandola nel sacco, dice: «Sei stato fortunato che mi mancava una sola testa per raggiungere la quota di oggi.»
E io, malgrado le bombe che continuano a esplodere, tiro un sospiro di sollievo.