Quel giorno di ottobre

Ho sempre saputo che c’era qualcosa di diverso in me. Non nel senso che mi sentivo speciale o superiore – non sono quel tipo di persona – ma come una lieve crepa sotto la superficie, invisibile finché non ci metti il dito e senti che cede. Era un’intuizione, come un prurito. E a casa mia, nessuno parlava mai di cose che prudevano.
 
Quel giorno di ottobre tornavo da scuola con Enrico, occhi fissi sul cellulare, ogni tanto ci sgomitavamo e guardavamo uno il Tik Tok dell’altro.
«Non prende, cazzo! Si è fermato proprio sul più bello!»
Enrico alzava il telefono, lo agitava a destra e a sinistra in cerca di una linea che non c’era.
«Stiamo proprio in culo al mondo, a volte mi sembra di impazzire!»
«Che vuoi dire?» risposi.
«Questo posto… è morto. Non succede mai niente. Le case sembrano buttate lì a caso, tipo: “Ok, sta bene qua”. Nemmeno le strade hanno senso»
Scrollai le spalle «Ci sono nato, ci sono abituato»
«Non so proprio come fai, io almeno ogni tanto vado a Bologna da mio fratello, lì sì che si vive davvero! Tu, invece, stai sempre qui. A fissare il fiume»
«Il fiume ha qualcosa di interessante» dissi, difendendolo più di quanto avessi voluto. «È vivo, sai? Non sembra, ma prende cose»
«Tipo?»
«Non lo so, cose. A volte tronchi, a volte rifiuti. Una volta un cane»
Enrico mi guardò aggrottando la fronte. «Un cane?»
«Già. Lo vidi quando ero piccolo. Camminava troppo vicino all’acqua. Il fiume lo tirò giù. Non l’hanno mai trovato»
«Boh, te non sei normale: sarà semplicemente scivolato, no?»
Alzai le spalle. Come potevo spiegare quello che ricordavo così nitidamente senza che mi considerasse un pazzo totale?
Enrico si fermò fissando l’orizzonte.
«Non so, Michè, sembra tutto troppo fermo per i miei gusti. Sembra che il tempo qui si sia addormentato e che sia tutto senza senso»
«Ma alla fine c’è tutto quello che serve senza tante paranoie e con un’ora di treno sei in città, basterebbe che il telefono prendesse!» chiusi il discorso perché non mi andava di farmi dare dello strano per riuscire a trovare un senso ad ogni via, casa, campo… anche se a lui sembrava tutto “storto”; e per sentirmi così legato a quei posti.
Era qualcosa che c’entrava con quella crepa o con il passato, non lo sapevo bene neanch’io.
 
«Quello non è tuo zio?»
Alzai lo sguardo. Mio zio Daniele, il fratello di mia madre, stava davanti al portone di casa nostra. Indossava il suo vecchio giaccone da lavoro, quello che sembrava sempre un po’ troppo grande, e aveva le mani infilate nelle tasche.
Enrico mi diede una pacca sulla spalla e se ne andò verso casa sua, mio zio non gli stava tanto simpatico.
 
Quando entrai in casa, sentii subito il tono basso delle voci. Mia madre e mio zio stavano parlando in cucina, troppo piano perché capissi. Mi nascosi dietro l’uscio.
«Senti, Anna, non possiamo aspettare che lo venga a sapere da altri. Devi parlargli di nostro padre, spiegargli cos’è successo»
Il sangue mi si gelò.
Mio nonno era morto quando io ero piccolo e di lui si parlava pochissimo, sempre in modo vago.
Feci un passo indietro, qualcosa scricchiolò. Mia madre spalancò la porta della cucina. Armeggiai con il telefonino fingendo di rispondere a un messaggio, salutai lo zio e mi fiondai dritto in camera.
 
Avevo la testa piena di domande, ma quando tornai in cucina mio zio se n’era andato e mia mamma stava preparando il pranzo come se niente fosse.
 
Quella notte sognai il fiume. Era più largo del solito, quasi un mare, e le sue acque non erano marroni, ma di un rosso denso e vischioso. Stavo sulla riva, incapace di muovermi, mentre una figura emergeva lentamente dall’acqua. Era alta, magra, e aveva i miei stessi occhi. Non urlava, ma sentivo il suo grido nella testa.
Mi svegliai di colpo, sudato e tremante.
 
La mattina dopo me ne andai al fiume sperando di trovare risposte.
Tirai un sasso, poi un altro e un altro ancora. I cerchi, come di vetro liquido, si allargavano lentamente e si intrecciavano nell’acqua immobile. Prima di dissolversi nella calma piatta un’ombra effimera ondeggiò sotto la superficie e la scalfì.
 
“Michele,” disse una voce e il pesce siluro, enorme, emerse lentamente.
«Chi ha parlato?» balbettai guardandomi nervosamente attorno.
Il pesce immobile mi fissava.
«Non aver paura, sono qui per finire ciò che ha iniziato tuo nonno, aspettavo solo che tu fossi pronto»
«Finire cosa?» chiesi tremante.
«Finire di prenderci quello che spetta al fiume»
E fu in quel giorno di ottobre che sentii per la prima volta, nitidamente, il richiamo del sangue.
Quello della mia famiglia, quello che mi teneva legato a quel posto, a quel fiume. Non era un prurito, no, era il bisogno di fare pulizia, di eliminare chi era indegno di vivere in quel posto.
“Come mio padre” pensai. E ricordai. Ricordai come nonno lo aveva fatto inghiottire dal fiume.
«Prendilo!» dissi al siluro appena vidi Enrico avvicinarsi all’argine.
Non fece in tempo a urlare, il sangue si mischiava già all’acqua marrone.
«È scivolato» dissi poi «mica ci sono i mostri nel nostro fiume!».
 
(Copertina creata con CHATGPT)