Rimpianto

 

Sono sempre meno, le cose per cui vivere sono sempre meno. E tu te ne stai lì a cercare, cercare una delle inutili ragioni per alzarti dal letto un’altra volta, andare in bagno un’altra volta, lavarti i denti (forse) un’altra volta e uscire. Ma certe mattine è proprio impossibile. Provi a fregartene e non pensare alle ripercussioni. Eppure, tutto quello che deve ancora venire, dipende da ciò che è già stato fatto. Nella stessa strada della vita, priva di incroci, priva di deviazioni o un semaforo almeno, che permetta di pensare e starsene fermi per un po’, ad aspettare il lavavetri algerino, ad aspettare tutto quello che ancora non è arrivato e che di certo non verrà mai. Senza andarlo a cercare. Perché, sebbene tu riesca ad amare, non è detto che venga ricambiato.
Io.
Così mi alzai anche quella mattina, nonostante tutto. Misi su la moca, fissando i fornelli incrostati di sugo al pomodoro di mia madre.
«Dovrei pulirli.» Dissi.
«Dovresti.»
«Buongiorno, Seba.»
Grugnì, seduto sulla sedia in cucina.
Sebastiano era il mio coinquilino da un anno e mezzo.
«Cosa hai fatto ieri sera?»
«Mi sono visto con Valeria.»
«Dovrei rivederla anche io.»
«Dovresti.»
Il caffè venne fuori, lo tirai via dal fuoco non appena vidi schizzarne una parte sul piano cottura.
«Vuoi?»
«No.»
«Ti ha detto qualcosa di me?»
«Chi?»
«Come chi? Valeria.»
«Dice che le devi cinquecentonovantasei euro di alimenti.»
«E la bambina?»
«Anche la bambina dice che le devi cinquecentonovantasei euro di alimenti.»
«Capisco.»
Colmai tre cucchiaini di zucchero e li rovesciai in una tazzina, poi aggiunsi il caffè. Mi buttai sulla seggiola vicino Sebastiano e cominciai a bere. Ero fiacco. Lui mi guardava e scuoteva la testa:
«Ti ricordi di Giovanna, quando eravate nudi sulla darsena ma tu hai fatto cilecca?»
«Mi ricordo.»
«Ti ricordi di tuo padre, quel gran porco?»
«Mi ricordo.»
«Ti ricordi di come riuscivi a divertirti l’estate, da ragazzo, coi tuoi amici?»
«Mi ricordo.»
Ogni mattina discutevamo così. Non riuscivo ad avere pace, dal momento in cui decidevo di scostare le lenzuola di dosso sapevo che Sebastiano era lì. E non se ne sarebbe andato tanto facilmente …
Lo conobbi la sera in cui litigai per l’ultima volta con mia moglie, o meglio, ex moglie, un anno e mezzo prima. Dopo essere stato buttato fuori di casa decisi di fare un giro in macchina per cercare di distendermi. Era notte. Senza luna, o magari c’era ma non illuminava comunque, non so. Stavo percorrendo una strada statale sulle colline dell’entroterra lucchese. Non pensavo a niente, probabilmente avevo il cervello intasato come il cesso di un autogrill e tutte le idee, le emozioni, le pulsioni e le bestemmie si accavallavano una sull’altra impedendomi di ideare qualcosa di concreto. Solo una cosa avevo chiara in testa:
ERA FINITA
con mia moglie intendo. Era troppo orgogliosa per accettare quello che le avevo fatto. Credo avesse ragione. Sì.
Stavo andando veloce e la mia guida barcollava. Tracannai una sorsata di gin dalla bottiglia sul sedile del passeggero e sbattei le palpebre due volte consecutive. Non ci potevo proprio credere:
ERA FINITA
con mia moglie intendo.
Un cinghiale mi sbucò d’improvviso da un cespuglio. Non feci in tempo a sterzare che lo centrai in pieno.
Urlò.
Frenai, tardi.
Mi passai le dita sugli occhi per cercare di riprendermi e scesi dalla macchina. L’animale era sdraiato di peso sull’asfalto, illuminato dai fari della mia Panda. Respirava a fatica ma tentava di dimenarsi ancora, nonostante avesse una gamba e parte del corpo distrutti. Grugniva, di un grugnito disperato che pareva gridarmi:
«Ehi, brutta merda! Mi hai preso! Non sai chi sono io! Io ti pelo, hai capito? Ti porto per avvocati e ti pelo! Chiama un’ambulanza, muoviti, Cristo!»
Non chiamai nessuno.
Sapevo che non sarebbe passata un’anima fino alle cinque e mezzo, quando i primi impavidi si sarebbero recati alle loro ditte edili per il turno della mattina. Così entrai di nuovo in macchina e presi dal cruscotto un pacchetto di Camel, poi tornai dalla bestia agonizzante.
«Vuoi?»
Gli dissi sfilando una sigaretta per me e porgendone una a lui, ma quello continuava solo a divincolarsi e piangere.
«Hai smesso eh, amico? Non sai quante volte, quante volte ci abbia provato anche io. Eppure eccomi qua!»
Accesi la sigaretta e iniziai ad aspirare, mi misi a sedere sul cofano della macchina avendo la luce giusta per quel meraviglioso spettacolo della natura. Una bestia morente in una chiazza del suo stesso sangue. Brutta fine, poveretto.
«Sai, stanotte ho rotto con mia moglie. Abbiamo anche una bambina di sei anni, oh vedessi quanto è carina …»
Parlai con lui per una ventina di minuti, poi morì. Lì, sull’asfalto freddo. A volte il destino è così ingiusto.
Lo trascinai fino al ciglio della strada e lo spinsi fuori dal guardrail, facendomi il segno della croce e facendo pipì alla base del cartello che segnalava l’attraversamento di animali.
Dalla mattina seguente me lo ritrovavo sempre in casa.
Ora parlava davvero però.
«Ti ricordi anche …»
La suoneria del cellulare interruppe l’elenco di Sebastiano e corsi a rispondere. Era Valeria.
«Pronto?»
«Sei in ritardo! Dove sono i soldi? Cazzo, Sebastiano, devo comprare i libri per la scuola e pagare il saldo della scuola di nuoto! Non puoi sempre essere in ritardo …»
«Ciao, Valeria, che piacere sentirti.»
«Piacere? Mi prendi per il culo? Senti, ti conviene pagare entro domani sennò non vedrai più la bimba, intesi?»
«Ti sei vista con Sebastiano ieri sera?»
«Sebastiano chi?»
«Il mio coinquilino.»
«…»
Aveva riagganciato.
Tornai in cucina e finii il mio caffè.
«Che ti ha detto Valeria?»
«Che gli sei rimasto molto simpatico.» Risposi.
«Dovresti smetterla.»
«Dovrei.»
Misi la tazzina nella pila del lavandino e tirai fuori un pezzo di carta dalla tasca del pigiama. Mi voltai verso Sebastiano:
 «Ieri ho scritto una poesia. Ti va di sentirla?»
Grugnì.
«Si intitola:
Niente.
è così lunga una notte senza essere amati.
Eppure provo,
senza speranza
a andare avanti,
mentre il mondo si perde nel tempo.»
«Fa schifo.»
«Ok.»
«Stasera vedo Giovanna, ci vediamo al Bagno Balena a Forte dei Marmi. Credo ci stia.» Disse.
«Oh, bene, sono contento, sono contento per te. Dovrei rivederla anche io.»
«Dovresti. Ormai.»
«Vado a prepararmi.»
Mi voltai e mi incamminai verso la camera da letto. Sullo scaffale del salotto tenevo ancora la mia foto con Valeria, non ero ancora pronto a uscire con un’altra donna. Non capii mai perché quella sera, di ritorno dall’ufficio, la tradii con una prostituta, forse mi aveva eccitato l’idea del denaro. Adesso mi eccitava solo l’idea di avere una famiglia, invece.
Mi vestii.
Scesi.
Sebastiano era ancora in cucina, gli feci un cenno con la mano. Senza lavare i denti aprii la porta. E, appena prima di uscire, mi rivolsi all’animale chiedendo:
«Seba, ma tu mi hai mai voluto bene?»
«Non più di quanto tu ne voglia a te stesso.»
Sospirai e andai a lavoro.
 
Sarebbe morto trentadue anni più tardi. Da solo, con Sebastiano in cucina.