
Amare, accogliere, aiutare. La magia del non rifiutare, la saggezza di saper fare la cosa giusta. Un racconto di Raffaele Marra.
Comparve la sera di San Giovanni, mentre una stella azzurra brillava lontana nel cielo sopra le colline. Fu per questo che Nino e Laurita la chiamarono Stellaluce.
Era piccola come un tozzo di pane, avvolta in un vecchio panno giallo, posata da mani sconosciute sul sentiero che attraversava gli orti fino alla porta di casa. Piangeva, invocando cibo e pietà, spaventata da quell’albore di vita avaro di ogni cosa.
Nino e Laurita la raccolsero come una farfalla posata su un fiore, l’accarezzarono, la nutrirono, le diedero un tetto e un giaciglio.
Abitavano ai piedi della collina di Pisticci, in un frammento di terra di proprietà del convento, in una casa di mattoni costruita da Nino quando aveva ancora la schiena dritta e tutti i capelli in testa, ai margini dei campi di grano dei frati dove quella schiena, anno dopo anno, si era curvata come un ramo di ulivo.
Vivevano da braccianti nella terra di altri, ma in quella casa Nino era il re e Laurita la regina. E Stellaluce, sempre più bella e sorridente, divenne la principessa. In quella casa c’erano già Rocco, Giovanni, Alvaro, Rosina, Anna, Bianca e tutti gli altri. Erano più di venti, e baciarli tutti in fronte prima di dormire richiedeva un bel po’ di tempo. Ma fu subito evidente che Stellaluce era diversa, una bambina speciale.
In quella casa ella imparò a camminare, a pregare, a parlare, a curare le galline e i conigli, a vagliare il grano dopo la mietitura, a fare il pane, a correre e cantare. Era una bambina felice, e quando giocava con i suoi fratelli raccontava loro quanto le piacesse correre nei campi di grano.
Fu la notte dell’Immacolata che, al diradarsi improvviso delle nuvole, riapparve lontana la stella azzurra. Fu quella notte che la donna bussò alla porta di Nino quando ormai era tempo di dormire. Era bella, proprio come Stellaluce, ma non aveva né il suo sorriso né la sua pelle liscia. La bambina aveva cinque anni, la donna molti di più
Fu immediatamente chiaro a tutti che fosse la madre. Maria, disse di chiamarsi. Avevano sentito parlare di lei; in paese si diceva che la sua casa fosse testimone di indicibili pratiche, che uomini di qualunque età fossero disposti a pagare per godere della sua discutibile arte. Maria passò la notte con loro, raccontando a bassa voce la sua storia, incapace di guardare negli occhi Laurita, Nino, Stellaluce e tutti gli altri. Raccontò di quanto avesse sofferto in quei cinque anni, dopo aver lasciato quella creatura indesiderata davanti alla loro casa.
Fu così che, all’alba di un tiepido giorno di dicembre, Stellaluce scomparve per sempre, pronta a nascere di una nuova vita, in una nuova casa e con una nuova madre. La vera madre.
Quel mattino, Nino restò in casa con Laurita, tenendola per mano e carezzandole le guance ormai secche. Restarono così, per un giorno intero, a pensare e a ricordare. Intorno a loro c’erano tutti i bambini di sempre, muti e immobili. Erano solo bambole di pezza, ma quel giorno i loro occhi sembravano un po’ più vivi.
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