
Un rapporto conflittuale, un ricatto cui non ci si può sottrarre. Direttamente dal Laboratorio, un racconto di Massimo Tivoli. (AVVISO: contiene linguaggio esplicito)
Le tempie pulsano. Non riesco a ricordare l’attimo in cui reagì alla noia, diventando un mostro.
«E dai, è tanto che non me lo fai» lamenta mia moglie.
Mi siede di fronte, sul piano dell’isola al centro della cucina. La gonna tirata in su, le cuciture laterali sul punto di scoppiare. Piatti e bicchieri impilati in un angolo del piano. Sporchi, unti, come la sua anima. Seduto più in basso, l’immagine della sua fica mi arriva diretta. Contraggo l’addome per contenere la nausea. La punta della sua scarpa preme sull’ombelico. Il tacco sul cazzo. Un moncone senza più desiderio, lo specchio del rigetto per la sua mania.
Sollevo lo sguardo per fissarla negli occhi. «No» ribadisco ringhiando.
«Stronzo!» Preme con le braccia sul piano e spinge con la gamba, penetrandomi il petto con la scarpa.
Il capo all’indietro, i muscoli del collo contratti, la sedia in equilibrio, inclinata solamente su due delle quattro gambe. Annaspo con le braccia nell’aria, aggrappandomi al nulla. Mentre la gravità agisce sull’inclinazione della sedia, lo sguardo incontra il suo, deformato dall’ira, poi il lampadario, il soffitto.
Lo schianto mi rimbomba nelle ossa. Frammenti della sedia pungono la nuca e le scapole. La rabbia sale mischiandosi al sangue nelle vene, che scorre, veloce.
Facendo leva sulla nuca, osservo la parete spoglia dietro di me. Attende di essere riempita con le foto di figli che non verranno.
«Che c’è, hai già dato? È l’ospite americana? O quella troia della tua segretaria?»
«Sei pazza.»
Scende dal piano. Al suo fianco, i nostri piatti e bicchieri impilati. «È perché non posso darteli?»
«Tu proprio non vuoi capire… non mi va, non così.»
«Pezzo di merda!» urla, falciando col braccio i due bicchieri. Ancora a terra, li sento esplodere, andare in frantumi. Come il nostro matrimonio.
Mi rimetto in piedi. «Adesso calmati. O finisce che ci facciamo male.»
«Oh, dici che ci facciamo la bua?» replica sarcastica. Poi prende i piatti impilati, a due mani, e li solleva fin sopra la testa.
«Cazzo fai, fermati!» le urlo, e con un guizzo in avanti faccio per bloccarla.
Il frastuono dei piatti scagliati contro il piano fischia ancora nelle orecchie. Una scheggia mi ha colpito, il formicolio irradia la tempia e un solletico caldo mi scivola lungo la guancia destra. Lei afferra un frammento di piatto, lo impugna come fosse un coltello. Mi fissa con gli occhi sgranati, di uno stupore e un’eccitazione senza senso, le mascelle contratte e la punta terminale del frammento a solcarle il palmo della mano.
Solleva il braccio, portandosi la mano insanguinata alla bocca. La lecca, quasi lappando il sangue che continua a colare. «Ti piacerebbe se te lo leccassi così, eh?» La sua voce, il male, che divora da dentro.
Mi faccio avanti e l’afferro per il collo. «Mi fai schifo.» La sbatto contro il frigorifero alle sue spalle.
«Sì. Dai. Fallo.»
No, non devo.
«Sei un frocio.»
Il braccio sinistro trema, le unghie penetrano nel palmo della mano.
Afferra il destro con le mani, e stringe. Mi fissa lasciva. «Fammi vedere se hai il coraggio. Forse non è per colpa mia, se non arrivano.»
Maledetta. Le sue parole, scariche elettriche nel cervello. Ogni fibra del mio corpo freme, si tende, sembra voler esplodere nello sforzo di contenere, di non reagire.
«Lo sapevo…» fa una pausa mostrandomi il volto trasfigurato dal ghigno del male «ci vuole un vero uomo per fare dei figli.»
Non resisto. Carico il braccio.
L’impatto delle nocche sullo zigomo. La massa verde-bluastra si espande. Il rigonfiamento lievita, a chiuderle sempre più l’occhio.
Col pugno ancora chiuso, realizzo di averle scagliato contro tutto quello che è capace di farmi diventare.
Abbasso lo sguardo e allento la morsa. Il braccio precipita a fianco del corpo.
Mi ha fregato. Di nuovo.
«Ce ne hai messo di tempo, questa volta. Adesso scopami.»