Un incontro

Incontri casuali, amicizie inaspettate, vite nascoste dietro all’apparenza. Direttamente dal Laboratorio, un racconto di Alessandra Corrà.

 
Quel pomeriggio, non appena le prime gocce di pioggia iniziarono a colpire con prepotenza l’asfalto della città, pensai che sarebbe stato meglio trovare subito un riparo.
Detto e fatto, scivolai dentro il primo negozio che incrociai nel mio cammino. Peccato che si trattasse di un negozio di arazzi e tappeti orientali. Non che avessi qualche cosa contro quel tipo di merce, anzi; ma non erano certo oggetti appetibili per una turista giunta da pochi giorni a Firenze.
Una donna molto bella, dall’aria spettrale, mi accolse all’ingresso.
«Sono entrata per ripararmi dalla pioggia» le dissi, sincera, quasi intimorita «di solito d’estate i temporali non durano a lungo, potrei stare un momento qui?»
La donna, forse ben disposta per la mia franchezza, assentì sorridendo e tornò a sedersi dietro la cassa. Iniziai allora ad aggirarmi per il locale cercando di mostrare curiosità per le stoffe appese ai muri.
Quei tappeti, dai colori seducenti e caldi, infondevano uno strano torpore ammaliante ed erano così belli che mi dispiaceva di non avere soldi per comprarne uno.
Stavo gironzolando già da un po’, quando improvvisamente mi sfuggì uno sternuto.
«Devi aver preso freddo» disse la donna ridendo, spuntando alle mie spalle «Rispetto a stamani la temperatura è scesa di diversi gradi. Qui nel retro ho delle stoviglie e un fornello, se vuoi posso offrirti un tè.»
Senza aspettare risposta, andò a chiudere la porta d’ingresso e si diresse verso il retro del locale. Notai allora che zoppicava leggermente.
Fuori il vento continuava a soffiare come un gatto prima di un litigio. Le strade erano deserte e buie. E la pioggia cadeva sempre più copiosa mischiata alla grandine. Di certo, l’idea di uscire non era invitante, così seguii la donna.
La stanza, nel retro del locale, era piena di cianfrusaglie e fotografie in bianco e nero appese alle pareti. L’aria era opprimente, stagnante, e questa sensazione era esasperata da un profumo dolciastro.
«Non ti piace questo odore, vero?» chiese lei, leggendomi nel pensiero. «E’ incenso al sandalo. Io ci sono abituata, ma immagino possa dar fastidio. Nei mercati del mio Paese, c’è sempre odore di fiori, incenso e sporcizia. Di solito è uno degli aspetti che affascina tanto i turisti.»
Finito di preparare la bevanda, mi porse una tazza fumante.
«Siediti pure dove vuoi.»
Sprofondai su una sedia accanto al tavolo e guardai, sempre più incuriosita, la figura snella della donna aggirarsi al fornello. In quel momento, nella luce riflessa della finestra, mi sembrò un essere irreale. Prima non ci avevo fatto caso, ma con quella luce crepuscolare, era come se fosse uscita da qualche fiaba, per essere imprigionata in quel luogo opprimente.
La donna, con il suo passo claudicante, venne poi a sedersi accanto a me.
Come fossimo buone amiche, e non due sconosciute come in fondo eravamo, iniziò a raccontarmi molte cose del suo Paese e di lei stessa. La sua disposizione nei miei confronti mi stupiva, ma ero anche affascinata dal suo racconto. Mi disse che era scappata dal Marocco perché non sopportava di vedere come i suoi compaesani mischiassero in modo indiscriminato la crudeltà alla dolcezza. Così, non appena aveva incontrato un italiano, che si era innamorato di lei, lo aveva seguito nella sua terra. Non sapeva se la sua fuga fosse stata una conseguenza dell’amore o se avesse ascoltato solo il desiderio di andarsene per cercare la libertà.
Nonostante tutte le cose che mi disse, mi accorsi però ben presto che una grossa verità continuava a rimanere celata nel silenzio. I suoi occhi, scuri e malinconici, sembravano nascondere un’infelicità esasperata, anche se in profondità si scorgeva una piccola scintilla brillare.
«E la libertà alla fine l’hai trovata?» mi arrischiai a chiederle, fissando attentamente le sue ciglia spesse, color ruggine.
Lei non rispose, ma una piega nascosta tra le labbra mi fece intendere tutt’altro.
«Si è fatto tardi. Tra poco devo chiudere il negozio e rientrare a casa. Carlo doveva fare delle commissioni fuori città, per questo mi ha chiesto oggi di stare in negozio al posto suo. E’ molto geloso, non tollera che io passi molto tempo fuori casa, nè ritardi di alcun genere. Peraltro, anche se sei una donna, potrebbe offendersi mi vedesse con te.»
Poi, guardando fuori da una piccola finestra, aggiunse:
«Ha smesso di piovere. Tu, quando tornerai nella tua città?»
«La vacanza è quasi finita. Domani andrò ancora a visitare San Gimignano, e poi a casa, a Torino.»
«Che bello poter viaggiare soli, decidere per sè.»
Mi alzai a malincuore dalla poltrona, mi dispiaceva dover lasciare quella donna, avrei voluto conoscere il suo segreto, poter far qualcosa per lei, anche se non sapevo cosa. Prima di andarmene, pero’, decisi di regalarle il braccialetto che portavo al polso. Mi era stato donato il giorno della mia laurea come portafortuna.
«Che bello! Dirò a Carlo che l’ho comprato al mercato stamani, così potrò ricordarmi di te. Ho passato un pomeriggio piacevole, spesso mi sento sola.» disse contenta, poi sollevò una manica della maglia per far spazio sul polso.
Diversi ematomi neri e blu, e cicatrici rossastre, segnavano la sua pelle.
«Non mi hai detto come ti chiami…» sussurrai debolmente, cercando di distogliere lo sguardo dal suo braccio.
«Farida» disse lei.
Notando il mio imbarazzo, mi fece una carezza sul volto, come volesse rassicurarmi. L’orologio segnava ormai le otto.
«E’ un nome bellissimo.»
 
Due giorni dopo partii per Torino. Non rividi mai più Farida, ma per lungo tempo ripensai a quella piccola luce che avevo intravisto in fondo ai suoi occhi. Ed ero certa che proprio quella luce un giorno le avrebbe mostrato la strada giusta da intraprendere per andarsene da sola e trovare quella libertà che desiderava e meritava da sempre.