Vaniglia

La disperazione quotidiana nel confronto tra due universi, quello fittizio della pietosa bugia, e quello terribilmente reale. Un racconto di Vilma Cretti.

 
L’alba fresca riempie l’erba di rugiada. Ci affondo i piedi nudi mentre attraverso il prato davanti a casa con la smania di sfiorare qualcosa di pulito. Mi tolgo sempre le scarpe quando rientro.
Per non fare rumore, perché Lara e Giovanni dormono, e anche mia madre.
Mi avvicino a sbirciarli nella loro stanzetta, non troppo vicino, hanno respiri innocenti i miei figli, occhi chiusi e sogni belli. Non voglio contaminarli.
E prima di andare a dormire mi faccio un caffè. Il liquido scuro e fragrante mi serve per scottare la lingua, scivola giù, nella mia anima nera.
 
«Non ti puoi far cambiare di turno, per una volta? È la recita di tua figlia.»
La voce di mia madre è intrisa di pazienza, sa come prendermi e non mi dà mai ordini.
«Proverò, ma non ti assicuro niente.»
«E già che ci sei, perché non chiedi il trasferimento? Non capisco perché ti tocchi fare tutti quei chilometri, c’è un ospedale anche qui. Hai due bambini, dovrebbero capire» sbuffa «quando facevo l’infermiera io… »
«Quando la facevi tu c’erano un sacco di posti liberi, ora fanno a cazzotti anche solo per un part-time. Sono stata fortunata, hanno accettato di farmi fare solo notti, posso seguire i ragazzi di giorno, che vuoi di più?» Devo farmi passare le lacrime dietro agli occhi, scendono nella gola che si stringe in una contrazione dolorosa. Afferro il mio borsone e esco nella notte di ottobre.
Appena ho la città alle spalle, mi fermo per fumare in una piazzola. Le stelle che scintillano mi danno fastidio al punto che se fossi un uomo le spegnerei con una pisciata. Che brillate a fare, eh?
Trenta chilometri mi separano dall’appartamento dove lavoro, sono un po’ in ritardo e mi devo assolutamente cambiare d’abito prima che arrivi il cliente, è uno fissato con la lingerie.
Quando arrivo ho i nervi a fior di pelle. E le ore passano lente. Scendo nel pozzo che ho dentro e non c’è sole che venga a salvarmi.
 
«Un rosso alla volta, Lara… no, gira solo in una direzione, così.» Ho i capelli legati e un grembiule bianco. Mia figlia si affanna sopra la ciotola e l’impasto sembra voler scappare via. È l’entusiasmo della prima volta. Le sue guance rosa e il suo sorriso mi spazzano via le nuvole dal cuore.
L’aroma di vanigia della torta si spande in tutta la casa e mi rimane addosso per ore.
Anche a Davide piacevano le mie torte, poi ha assaggiato quelle di un’altra donna e se n’è andato. Non vede i suoi figli da cinque anni. La prima marchetta l’ho fatta per non essere sfrattata e buttata per strada con loro. Poi i passi si sono fatti pesanti e la strada si è trasformata in un imbuto.
Esco, i bambini sono a letto. Scende una pioggia sottile che mi fa arricciare i capelli e, quando entro nell’appartamento, il tepore sprigiona dalle ciocche un leggero profumo di vaniglia. È l’altro universo che si intrufola in questo, e non voglio.
Però stanotte ne ho bisogno, così non mi spruzzo di fragranze esotiche e l’odore della mia cucina rimane a farmi compagnia fino all’alba.

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