
Amore o possesso? Ferite che appaiono impossibili a rimarginarsi, se non attraverso il dolore altrui. Un racconto di Veronica Cani.
Mentre accendeva le candele rosse del piccolo altare che aveva allestito sul tavolo in cucina, Elizabeth si chiese più volte se quello che si accingeva a fare non fosse ingiusto. Ma rinunciare al rito significava rinunciare a Kurt, e quest’idea la angosciava.
L’aveva conosciuto solo qualche mese prima, ma nel preciso istante in cui le aveva sorriso Elizabeth aveva percepito qualcosa che si spalancava con forza dirompente dentro di lei, e tutta la magia del mondo l’aveva pervasa.
Stese due strisce di carta bianca sull’altare e vi scarabocchiò sopra con una matita. Poi prese un limone dalla credenza, e con un coltello affilato vi incise una croce. Lasciò che il succo del limone le colasse lentamente fino all’avambraccio, mentre brandelli di ricordi si affastellavano nella sua mente.
«Abbiamo tante cose in comune» le aveva detto Kurt una volta, riaccompagnandola a casa. «Mi diverto con te. Mi fai stare bene.» Il modo in cui gli occhi grandi e tenebrosi di lui si erano posati sui suoi le aveva fatto cedere le gambe. Era stato in quel momento che Elizabeth aveva capito di aver contratto un morbo terribile.
Allargando lo squarcio che aveva prodotto nel limone, vi inserì le due strisce di carta. Poi prese un pugno di sale grosso e con forza ne riempì il frutto già spremuto allo spasimo. Lo strinse in mano con impeto febbrile e, mentre guardava quel limone affettato e gocciolante, pensò che anche il suo cuore innamorato dovesse avere quell’aspetto, dopo essere stato gonfiato, strizzato e fatto a pezzi.
«Abbiamo tante cose in comune» le aveva detto Kurt pochi giorni prima che lei accendesse le candele rosse. «Ma non abbastanza perché possiamo stare insieme. Non provo per te quello che tu provi per me.» Poi le aveva parlato di Cyndi. Gliel’aveva presentata una collega di lavoro durante una festa. Era alta, mora, spiritosa e gli aveva rubato il cuore.
Quando aveva scarabocchiato i nomi di Kurt e Cyndi sulle strisce di carta che poi avrebbe introdotto nel limone, Elizabeth aveva avvertito un fremito di soddisfazione. «Così come il sale sta cadendo a pezzi» proruppe ora con voce alta e solenne, «allo stesso modo l’amore di Kurt e Cyndi sia distrutto.»
Rimase qualche istante a fissare, con tutto l’astio di cui era capace, il frutto che conteneva gli odiati nomi, mentre il sale grosso si scioglieva e colava come poltiglia sul pavimento. Dopo aver pulito frettolosamente, avvolse il limone in uno straccio e spense le candele. Dovevano essere rosse, si era raccomandata la maga, se voleva compiere un rituale di allontanamento. Rosse come il suo cuore malato.
Uscì di casa con il prezioso involto stretto al petto, si guardò furtivamente intorno e si avvicinò a un tombino aperto. «Che siate maledetti» mormorò. Poi gettò il limone nel tombino.
E quando, rientrando a casa curva e a capo chino per non offrire la pelle alle raffiche gelate di vento, sentì in lontananza il boato di un’esplosione e poi le sirene di un’ambulanza, le piacque pensare che il rituale avesse funzionato.
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