
Un barone e il suo gatto a caccia di fantasmi e affini… Con sorpresa finale. Terzo classificato nella Quinta Edizione della Quinta Era con Emanuele Manco nelle vesti di guest star, un racconto di Andrea Partiti.
Il barone Villa raddrizzò il cilindro e si strinse nel tabarro. Lo sguardo gli sfuggiva, si spostava sulla strada senza soffermarsi sulla facciata. L’edificio non voleva essere notato. Sfiorò il muro esterno con una mano e lo seguì.
«Che ne pensi, Bub?» chiese il barone.
Tra i suoi piedi sfrecciò un gatto nero e affusolato.
«L’odore è giusto: trasuda ectoplasma,» rispose Bub.
Il barone annuì soddisfatto.
«Entriamo?» chiese, indicando la porta sul retro, scardinata.
Il barone Villa scostò la porta senza aspettare una risposta, vincendo una tangibile resistenza sulla soglia. Bub sparì all’interno.
L’elettricità nell’aria, l’odore di ozono… Erano lustri che il barone non sentiva tracce sovrannaturali così forti.
Dopo una breve ispezione si sistemò nella sala principale, tra stucchi e tappeti decadenti. Il barone sgombrò il tavolo al centro dell’ambiente, coprendolo con un telo bianco estratto dalla borsa, insieme a cinque candele e un carboncino. Bub ricomparve, lasciando sulla stoffa le sue impronte polverose.
Il barone si apprestava a iniziare il rituale quando il gatto annusò platealmente l’aria e sollevò lo sguardo. Il pelo gli si gonfiò.
Le spesse tende si chiusero con violenza. In un angolo della stanza si addensò una forma scura. Il barone si avvicinò curioso.
«Non sei un fantasma. Hai l’odore sbagliato,» commentò Bub.
Una voce profonda rispose: «Un fantasma? Non insultarmi! Sono un demone. E non un demone da poco!»
Una risata ultraterrena fece tremare il pavimento.
«Un demone!» esclamò il Barone con voce gioiosa. «Non sono mai demoni!»
«L’ultimo è stato… neanche lo ricordo quando!» fece il gatto.
«Voltri, 1823! Ci abbiamo messo mesi a ripulire quella locanda. Che anno glorioso!»
«Cosa farneticate?» domandò l’ombra, irritata.
«In quasi tutte le case infestate che ho acquistato c’erano solo fantasmi. Stupidi, banali…»
«Leggeri, insipidi…» continuò Bub.
«Ridicoli e insapori fantasmi!»
«Dev’essere per questo,» ruggì l’ombra, «che non fuggite!»
Il Barone sorrise, colpito da un irritato odore di zolfo.
«Un fantasma è patetico e innocuo,» tuonò. «È un riflesso di ciò che era. Nebbia. Ma io so essere carne e denti e unghie e corna. Posso strapparvi pelle e pelliccia, succhiarvi il midollo dalle ossa e suonarle come flauti infernali. I fantasmi spaventano, io divoro!»
«Lo so, lo so!» fece il barone con un gesto sprezzante della mano.
«Siamo d’accordo! Fantasmi: bleah,» lo rassicurò Bub, avvicinandosi all’ombra e scoprendo un dente d’argento, luccicante tra le labbra nere.
«I fantasmi sono i gambi di sedano del sovrannaturale» L’ombra si fece trasparente mentre il barone Villa gettava il cappello a terra.
«I fantasmi non saziano.» Bub si alzò sulle zampe posteriori, crescendo. L’ombra scomparve nella parete.
«I fantasmi sono come tè senza biscotti.» Il tabarro crollò al suolo.
«Ma hanno una cosa in comune coi demoni,» aggiunse Bub. «Non possono lasciare il luogo a cui sono legati.»
«Ed entrambi non sanno chi c’è in cima alla catena alimentare.»