Faccia di vetro

Cercare vita oltre Marte? Si può, se la Terra è già andata e non si hanno altre alternative. Il problema, semmai, è che qualcuno, prima o poi, troverà noi. Sesto classificato nella Brambilla Edition con Franco Brambilla come guest star, un racconto di Eugene Fitzherbert.

 
Era stata di Keller l’idea di mettersi dei vecchi acquari di vetro in testa per andare a vedere la partenza della prima Missione Spaziale. Spike e Finley avevano portato un po’ di bombolette di Seltz con tanto di cinghie per agganciarle sulla schiena. Avevano aspettato Lady con il bastardino Riot, Dorm e Natalie e tutti e sei avevano pedalato su per la mulattiera sterrata lungo il crinale di Mons Olympus.
La Missione Spaziale era stata battezzata ‘La Vita oltre Marte’, con un macabro gioco di parole che rappresentava una triste verità: gli umani erano riusciti a devastare anche un altro pianeta, e non c’era altro da fare che andarsene.
Keller aveva sentito suo padre affermare in tono lugubre che l’unica cosa a cui potevano ambire era l’Estinzione. Dal basso dei suoi dodici anni, non aveva capito bene cosa volesse dire Estinzione, ma aveva compreso il concetto: la fine di tutti. Niente più Spike e i suoi videogame, Natalie e le sue labbra che diventavano sempre più appetibili, Dorm e Finley e le loro continue discussioni su chi avrebbe vinto il campionato e Lady e il suo amore per gli animali. Non sarebbe rimasto niente se non un pugno di sabbia.
Per questo, andare a vedere la partenza della Missione era per Keller un avvenimento in cui riponeva le speranze di poter avere sempre vicino sé i suoi amici.
 
Affannati e un po’ sudati, arrivarono sul tornante più alto della strada. Indossarono le palle di vetro come caschi e imbracarono le bombolette di seltz. In fondo alla valle, Cape Canaveral Marziano si preparava alla partenza: i Razzi che avrebbero portato l’equipaggio alla ricerca della Vita oltre Marte erano in attesa sulle banchine di lancio e tutto era immobile, fin quando con un boato enorme, i motori si misero in moto.
«Secondo me non ce la fa!» disse Finley.
«Ma che dici!» intervenne Lady. «Mia madre ha conosciuto un tizio che ha lavorato alla costruzione di questi motori. Mi ha detto che sono superveloci perché piegano il tempo.»
«Cioè spezzano gli orologi?» Keller non si seppe trattenere.
Risero tutti insieme, dietro il vetro appannato delle loro palle di vetro, i suoni ovattati, spezzati dal vento che arrivava dal fondo della valle.
Finalmente l’astronave si sollevò in aria, veloce, ma a scatti, come se saltasse avanti. Dopo pochi secondi, un’onda d’urto enorme investì i ragazzi, come una vampata soffiata dall’inferno.
Il calore li ustionò all’istante, strappò l’aria dai polmoni e prima ancora che potessero anche solo urlare, fuse il vetro dei loro caschi improvvisati direttamente sulle loro facce, sigillando la bocca e gli occhi.
Per puro caso, il naso rimase libero. Il mondo di Keller si trasformò in un incubo fatto di oscurità: sentì delle esplosioni vicino a sé e si liberò all’ultimo istante della sua bomboletta, poco prima che lo riducesse in poltiglia.
Poi perse conoscenza.
 
Dopo un tempo imprecisato, si svegliò con gli occhi chiusi e la bocca immobile per la sua faccia di vetro. Si sentiva irrequieto perché aveva qualcosa da raccontare, ma non riusciva a farlo. Le voci intorno a lui erano ovattate, lontane.
«È Keller! È tornato!»
«Guardalo, guarda la sua faccia! È Lui!»
Avvertiva intorno a lui persone che si muovevano, che lo sfioravano, ma nessuno veniva a togliergli la maschera di vetro che era diventata la sua faccia. Urlava il nome di Lady e degli altri, ma nessun suono ne veniva fuori.
Aveva un messaggio da portare: era la voce dell’Uomo dello Spazio, che sembrava un coro di mille persone in agonia. Doveva dirlo a suo padre, lui avrebbe saputo cosa fare. Con le mani bendate e le dita insensibili e dure da muovere si arpionava la faccia, ma i polpastrelli non facevano presa, scivolavano sulla superficie liscia e priva di crepe senza alcuna conseguenza.
Quando sentì di essere solo, fece la cosa più ovvia. Nel buio del suo sguardo cieco, cercò quello che doveva essere il comodino e con uno scatto secco vi sbattè la faccia. Incurante, sentì la glassatura infrangersi e tagliargli la faccia. A strattoni si liberò la bocca e finalmente urlò a squarciagola. Alcune mani sconosciute lo afferrarono, cariche di sorpresa.
«Keller, cosa hai fatto?»
«Papà? Papà! Ascoltami, devo dirti una cosa: l’Uomo dello Spazio ha detto che arriveranno tra vent’anni, e ci trasformeranno tutti in schiavi, e che se non ubbidiremo ci ridurrano come il primo pioniere del tempo. Io non ho capito, ma tu sicuramente…»
Il padre di Keller scoppiò in lacrime. «Lo so, Keller. Tutto questo è successo dieci anni fa, molto tempo dopo la tua scomparsa… Ma ora sei tornato, ti sei materializzato qui in casa nostra e tutto andrà bene. Vedrai.»
«E la mamma?»
«Vieni, ti porto da lei. Non può parlare e tu non puoi vederla, ma puoi toccarla. Purtroppo è stata punita…»
Keller allungò le mani alla ricerca del volto di sua madre, per saggiarne gli zigomi, le labbra, il naso leggermente adunco, ma i suoi polpastrelli alla fine del loro viaggio a tentoni scivolarono sulla superficie liscia di una maschera di vetro…