
Un esperimento, un racconto in rima. Il vincitore della Aislinn Edition, dalla penna e dall’estro di Sara Tirabassi.
Mi seguivano fissi, insistenti, due occhi avvezzi a malocchi e ad apocalissi: la zingara, mi dissi, e contai otto rintocchi. Lasciai i balocchi del mio barroccino, e mi feci vicino: «Mi legga i tarocchi.» Come i pidocchi in testa a un bambino il suo risolino infestò la mia mente. Intanto la gente si metteva in cammino e fino al mattino nessuno riapriva battente. Però la veggente restava al suo posto, un futuro nascosto per ogni cliente: con aria sapiente tagliò il mazzo composto; «C’è un costo» mi disse «che devi pagare» e io volli accettare.
Dopo avere disposto tre carte accosto, si perse a guardare. Un arcano maggiore, un auspicio felice, l’imperatrice. Ma negli occhi pareva mancare la voglia di amare: ci vidi la noia di una stiratrice. La zingara disse: «È il passato» e il mio cuore sobbalzò ripensando al dolore di perdere Alice. Lei era un’attrice, e io un suo adoratore, ma poi il nostro amore si fece trito e banale: è normale che il tempo estingua l’ardore. La pensavo per ore, stavo sempre più male. Mi lasciò per un maiale, uno zingaro o armeno. Non era da meno la carta centrale, vale a dir la situazione attuale: di coppe un destriero.
Col suo sguardo osceno la strega osservava, il respiro che alzava e abbassava il suo seno; io ascoltavo, sereno, lei il mio presente narrava. Ma io già lo sapevo. Tra menzogne e inganni era morto il Giovanni che Alice amava. La gente si offriva di aiutarmi coi panni, che di aver mille affanni non l’ho meritato: «Per lei si è sposato a diciassett’anni ma, povero Gianni, l’ha abbandonato», «Non si è vendicato: nemmeno a una mosca farebbe del male, Giannino adorato», «È bravo, educato, lei invece era losca, speriamo conosca una donna per bene.»
Mentre due falene sbattevano apposta con la loro ombra fosca sulla lampada ad acetilene, la ragazza trattenne la terza carta tra le dita. Lì c’era il resto della vita, tutto il futuro che viene: sarei stato in catene dopo quella notte infinita? Ha l’aria incupita la mia zingarella, non è affatto bella la carta che è uscita: una dama pulita… è la Forza quella! Una donzella che doma un leone. Lei, con contrizione mi diede la triste novella: «Sì, è la Forza quella, ma a rovescio dà nuove non buone.»
Preso dall’ossessione mi alzai rapido in piedi poi le diedi, convinto, un ceffone, le accarezzai il groppone, la calciai con i piedi: «Bastarda non vedi che sono Giannino? Col mio barroccino, ti ho seguita trent’anni, in punta di piedi. Non dir che non credi ch’io sia un assassino! Ero solo un bambino, tu un mostro mi hai reso, impazzito. Ma l’odio sopito non si vede nemmen da vicino: chiedi a Caino! Son io tuo marito, pagherai per avermi tradito.» Poi da sotto il vestito estrassi un coltello che piantai nel suo collo avvizzito.
Non mi sono pentito.
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