
Una scelta: se stessi o gli altri. Una sola risposta, per dormire sogni tranquilli. Finalista nella Terza Edizione della Quinta Era con Francesco Troccoli nelle vesti di guest star, un racconto di Jacopo Berti.
«Tu sei morto». Non era una minaccia, ma un dato di fatto. Una comunicazione.
Non vi furono altre comunicazioni, quel giorno, tra Mauro e la signora Patrizia. La donna riprese a mangiare lo yogurt all’albicocca, leccando con gusto il cucchiaino, fronte e retro, dopo ogni boccone. Poi ruppe il vasetto di plastica in quattro pezzi, suggendo ognuno come una canocchia, mentre il nuovo volontario la guardava impietrito. Non appena ebbe finito, Patrizia ammonticchiò i frammenti con gesti misurati, si levò ieratica nel suo metro e novanta e se ne andò dal refettorio segnandosi innominepatris con la massima riservatezza che la sua stazza e le trenta gocce di diazepam le consentivano.
Patrizia udiva le voci da quand’era ragazzina. Le voci, a volte, le dicevano cose orribili, ma la rassicuravano quando Enzo tornava a casa prima di mamma e tirava la cordicella delle tapparelle della cucina, che calavano come una ghigliottina.
Patrizia sognava, anche. Ogni notte. La sua morte.
Sin dall’inizio c’era stato tutto, nei minimi dettagli. Il luogo le era ignoto, ma lo sentiva familiare. Lei che si alzava dal letto, che metteva a posto le lenzuola e ravvivava il cuscino. Andava verso la finestra, scostava le tende, le agganciava coi magneti a forma di girasole. Spostava pazientemente le orchidee e le aloe, facendo attenzione a non rovinarle.
Questa scena si ripeteva tale e quale, notte dopo notte, acquistando concretezza, spessore. Come se in uno degli infiniti mondi, ogni notte, una sua copia compisse il folle volo. Ogni volta una Patrizia diversa si separava dagli strati di Patrizie affastellate sul letto, lasciando una scia di riverberi digradanti come in un quadro futurista. Con un piccolo schiocco si distaccava da quelle ombre che poi rimbalzavano sul materasso. Le ricopriva e sistemava il cuscino sotto le loro teste, mentre queste sognavano la sua sorte e la seguivano nelle consuete operazioni.
Patrizia scostava le tende e spostava le piante, intravvedendo nel tessuto dei reali le ombre delle piante non spostate o di altre piante, o di soprammobili, o il davanzale di lucido marmo; delle tende di un altro colore e consistenza, di altre città fuori dalla finestra, esaltanti nella luce, o devastate da bombardamenti. Vedeva la sagoma eterea di una gatta acciambellata alle sue spalle. Il suo ronfare si confondeva col fruscio del vento.
Mentre lei precipitava, per strada la gente andava senza impronte sulla neve soffice o veniva bagnata da scrosci di pioggia che passavano attraverso gli ombrelli.
Ogni volta, sentiva il dolore.
Per questo, forse, una notte, la voce che udiva le fece una domanda e Patrizia rispose senza esitazione.
Se avesse saputo che anni dopo, alla casa Santa Tecla, avrebbe trovato quelle tende, quel davanzale, quelle aloe, quelle orchidee.
Se avesse saputo che i suoi sogni erano vera verità – così diceva – giurin giurello.
Se avesse saputo, avrebbe risposto diversamente.
«Vuoi sognare te stessa o gli altri?».
I commenti sono chiusi.