
I sentimenti, le umane frustrazioni, la vita. Certe cose non si possono insegnare e neppure costruire. Ma mettere in scena, sì. Un racconto di Alex Montrasio.
Quando mi informarono che Owen era morto, non provai la minima emozione. Nessun rimpianto per l’amico scomparso, né rabbia per la sorte riservata alla moglie e ai figli piccoli. Nel mio cuore non c’era spazio per il dolore, e la commiserazione non poteva esistere nei miei pensieri. «Sono pronto» dissi, e nient’altro. Perché questo era lo scopo dell’educazione che ognuno di noi esseri umani, epigoni di una razza ormai condannata, riceveva fin dalla più tenera età.
Uscii dalla mia stanza. Un esercito di robot era indaffarato nelle pulizie o in piccole riparazioni. Il più vicino a me stava lavando il pavimento. Mi fermò e mi chiese di parlare.
«Sopravvivo al rumore della realtà» dissi. Il robot parve felice della risposta e mi gratificò con un 90/100. Per quegli esseri di latta, che comunicavano con i numeri, un giudizio sopra l’80 equivaleva a un commento più che lusinghiero. Un altro robot mi offrì una ciotola di riso. Accettai il dono, e lo ringraziai. Non erano altro che schiavi, come me. Io servivo a loro, e loro servivano me.
Il corridoio terminava di fronte a un ovale metallico. Aprii la porta ed entrai in una sala circolare. Era semibuia, illuminata da luci colorate. Musiche stereofoniche e getti di fumo mi assalivano dalle pareti. Mi guardai attorno, ma non c’era via di uscita, lo sapevo. Mi trovavo sopra un palco, di fronte a una platea di esseri obbedienti, infallibili, eterni nei loro corpi sintetici. Sintoidi, li chiamavano, ma per me non erano altro che un ammasso di ferraglia travestiti da esseri umani. Menti di silicio, corpi di silicone, morbidi polimeri come pelle, e un unico desiderio: essere come me. Li osservai nei loro abiti eleganti e sfarzosi. E loro osservavano me. Piccoli occhi rossi privi di pupilla mi fissavano severi. Non tolleravano ritardi, non capivano cosa fosse successo a Owen, oppure non volevano farlo. Forse, preferivano ignorare il concetto di morte e continuare a sognare di essere vivi.
Con enfasi, pronunciai il mio nome e mi esibii in un inchino. Flettei le gambe, agitai le braccia accentuando il più possibile i movimenti del corpo. Era questo che il pubblico voleva da me. Quelli più carichi fischiarono e sghignazzarono, gli altri si limitarono ad applaudire. Tra un po’ avrebbero finto di ubriacarsi, e poi se ne sarebbero tornati alle loro occupazioni lasciando il posto a quelli del turno successivo.
La musica calò di volume, il sipario meccanico si sollevò rivelando una donna e due bambini, seduti attorno a una tavola apparecchiata. La donna mi corse incontro danzando. La abbracciai.
«Mi dispiace per Owen» le bisbigliai all’orecchio.
«Era diventato apatico. Quando se ne sono accorti, non ha avuto scampo.»
«Non ti preoccupare» sussurrai con dolcezza «ci sono io adesso.»
Le mie mani accarezzarono il suo corpo, le nostre labbra si chiusero in un bacio appassionato. Dietro di me, sentivo i sospiri dei sintoidi. Assistevano divertiti, felici di ricaricare con energia emozionale le loro batterie.
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