Il tribunale di Sara

Echi del passato che nascondono antichi segreti dietro occhi solo apparentemente privi di vita. Terzo classificato nel Contest Demo, un racconto di Erika Adale.

 
Erano passati dieci anni dalla morte di Andrea, ma Sara si svegliava ancora tutte le notti immersa in un sudore viscido e gelato. A occhi chiusi ascoltava il silenzio, stordita dal battere furioso del suo cuore. Erano passi, quelli che sentiva? Non era forse un fruscio, un lieve spostamento d’aria come se qualcuno le si fosse avvicinato e poi allontanato di colpo, intimorito dalle proprie intenzioni? Sara allungava un braccio fuori dalle coperte e afferrava l’interruttore della lampada. Uno. Andrea non poteva essere lì perché era morto. Due. L’aveva visto disteso sul tavolo di pietra dell’obitorio, un cadavere nudo e bianco. Tre. Perché l’aveva ucciso lei.
In quel momento, tutte le notti, accendeva la luce e apriva gli occhi. Si trovava sola nella stanza, osservata da decine di occhi di panno. La sua collezione di bambole di panno lenci, che Andrea odiava. Chissà come poteva. Sembravano una classe di bambini morbidi e indifesi. Erano il tesoro di Sara.
Alcune avevano il volto segnato. Una volta Andrea, per farle dispetto, aveva avvicinato l’accendino al volto della bambola tirolese. Un’altra sera aveva strappato un occhio alla marinaretta. Per tacere di quella finita nel tritarifiuti, la pastorella, ora tutta rattoppata.
 
Legittima difesa.
Così aveva detto il suo avvocato, così aveva confermato il giudice, così avevano scritto i giornali.
Una donna brutalizzata da anni, che una notte aveva reagito alla violenza con un colpo vibrato alla cieca.  E lui era caduto all’indietro, picchiando la testa al suolo.
Il medico legale era stato chiaro e sicuro. Andrea, incosciente, aveva lasciato scivolare la lingua all’indietro, fino a occludere le vie respiratorie.
Era morto soffocato.
Sara era tornata a casa, chiedendosi se non avrebbe dovuto dire tutta la verità al giudice.
Ma poi perché. Chi le avrebbe creduto?I veri colpevoli si potevano portare in tribunale, ma certo non era possibile interrogarli.
La donna aveva pensato di rinchiuderli: nell’armadio per dieci anni, la stessa pena che il Pubblico Ministero aveva chiesto per lei. Poi aveva cambiato idea. Anche la loro era stata legittima difesa.
 
Quella notte di dieci anni prima, era intontita dalle botte prese, ma non abbastanza da non vedere chi scendeva dallo scaffale e si avvicinava ad Andrea, svenuto a terra. Si era sollevata a fatica e, attraverso le palpebre gonfie e spaccate, aveva scorto la bambola marinaretta sedersi sulla bocca dell’uomo, mentre la piccola tirolese gli tappava il naso con le manine di tessuto. Le altre ridacchiavano deliziate. Soprattutto la pastorella finita nel tritarifiuti, che ancora attendeva di essere ricucita.
 
Quando Sara si svegliava di notte, guardava le bambole e, per un attimo, aveva paura. Poi ci ripensava. Erano solo delle piccole birbanti.E, se non era stata punita lei, non lo sarebbero state neanche loro.